Ven. Apr 26th, 2024

Esiste un confine labile fra la reinterpretazione della Storia, man mano che nuovi eventi, ed anche nuove sensibilità, si fanno strada nell’opinione pubblica, oppure “riscriverla”, magari strumentalmente, per favorire questo o quel partito, questa o quella corrente ideologica radicata nell’attualità e nella cronaca.

Oggi plaudiamo a ragione per il riconoscimento del genocidio dei “nativi americani” (che non è ristretto al XIX secolo, ovvero a guerre e guerriglie contro l’Esercito e contro cowboy e pistoleri, ma data dalla stessa “scoperta delle Americhe”), mentre sospettiamo a maggior ragione di “riscritture” storiche volte a ridimensionare, o a negare (“negazionismo”) l’esistenza della Shoa.

Tuttavia il “revisionismo storiografico” è, nel suo complesso, inevitabile.

Polemiche storiografiche, ma anche giornalistiche (con inevitabile coinvolgimento dell’opinione pubblica), riguardato anche le vicende italiane, e soprattutto il Fascismo, che si è voluto, da alcune parti, incongruamente ridimensionare nella sua brutalità, o magari addirittura “rivalutare”, adducendo le premesse socialiste degli inizi.

Tuttavia, per arginare il “revisionismo”, ci si rifiutava contemporaneamente di fare i conti con il consenso effettivo che il “regime fascista” ha comunque avuto prima dell’entrata in Guerra: grazie all’ “onore salvato” con la Guerra di Liberazione, era invalsa una storiografia dominante, di impronta “resistenziale”, entro cui l’adesione delle masse alla dittatura veniva considerata quasi innominabile …

… un tabù sfatato finalmente, in anni più sereni (ma non tanto!), dagli ottimi studi di Renzo De Felice:

https://it.wikipedia.org/wiki/Renzo_De_Felice .

Oggi, a mio parere, si sentirebbe la necessità di estendere le reinterpretazioni della storia italiana al Sessantotto e agli anni Settanta, sottraendo questo periodo all’insostenibile oleografia della Rivoluzione anti-borghese …

… essendo stati invece quegli anni assolutamente contaminati dalla vivacità intellettuale (ma anche dalla violenza e dalla retorica) dei “borghesissimi” studenti universitari, come ebbe a sottolineare Pasolini, poetando sugli scontri di Valle Giulia (Facoltà di Architettura, Roma):

http://temi.repubblica.it/espresso-il68/1968/06/16/il-pci-ai-giovani/?printpage=undefined .

Pur non ambendo affatto al carisma dello “storico”, ho dato anch’io un modesta contributo alle ri-lettura del Sessantotto, nel numero scorso e in quello precedente (che formano un dittico).

Nel numero del 01 Novembre, terminavo infatti così:

Il Sessantotto ha prodotto la più ingrata, privilegiata e “regressiva” fra le generazioni di cui abbia memoria: una generazione che non ha visto, né partecipato, né “sofferto” gli eventi fondamentali di questo Paese, e che tuttavia ha fondato la propria “egemonia” proprio su questa mancanza di compartecipazione, affettività ed empatia.

Io la chiamo: LA GENERAZIONE ORRIBILE, e sarà il tema del prossimo articolo.

Di veramente orribile c’erano e ci sono due aspetti:

  1. a) il ridimensionamento dei meriti della generazione precedente (che del resto aveva “solamente” ricostruito l’Italia dopo la Guerra!), brandendo come arma impropria la propria raggiunta cultura universitaria;
  2. b) guardando complementarmente al futuro, oramai diventato presente, un grande e duraturo inganno verso le generazioni future, al grido stentoreo di “Noi sì che …”, capace, per la sua arroganza e supponenza, di mortificarne sul nascere la presenza creativa.

(Non a caso, argomentavo, molti giovani di oggi si nutrono di Led Zeppelin, Deep Purple e Rolling Stones, perché QUESTA – ovvero quella dei padri sessantottini! – sarebbe la VERA musica.)

C’è da aggiungere che la GENERAZIONE ORRIBILE è anche orribilmente folta.

Siamo tantissimi, giacché corrispondiamo grosso modo al “boom” delle nascite del periodo 1946-1964.

(Il dato è americano, e parimenti il termine generalmente usato, ovvero “baby boomers” … ma come raramente avviene nella Storia recente, il dato italiano non è successivo, ma grosso modo contemporaneo a quello statunitense).

I 65-75enni attuali la fanno ancora da padrone, in termini di opportunità economiche ed occasioni di tempo libero.

Meno i 55-65enni: ciò per motivi che stiamo per andare ad analizzare (“gli anni Settanta non sono la semplice continuazione del Sessantotto”) … e comunque sempre meglio delle generazioni successive, oramai decisamente invase dalla crisi, dalla precarietà e dall’apparentemente definitiva obsolescenza di quell’ “ascensore sociale” che permetteva in passato ai giovani non abbienti di poter pervenire a un futuro migliore.

Insomma, i nostri padri e le nostre madri (nati e nate, per intenderci, e a puro titolo d’esempio, fra il 1918 e il 1928-30-32) hanno gettato il fondamento di una nuova Italia: Resistenza, Repubblica, Ricostruzione, fatti d’Ungheria, Boom Economico, Governo Tambroni), e hanno fatto figli (1946-1964: NOI, quelli della GENERAZIONE ORRIBILE) facendoli studiare …

… per avere come primo regalo l’estromissione dalla storia che conta: a partire dal Sessantotto (e poi in parte negli Anni Settanta), chi conta veramente sono i figli, perché vanno all’Università! E sono ovviamente corteggiati dal Marketing, come era successo solo in misura minore per le generazioni precedenti.

Per essere un movimento “democratico” ed “antiborghese”, nonché “anticapitalistico”, le premesse erano quanto meno contraddittorie.

Così Massimo Fini, nell’ottimo “Il Conformista – Contro l’anticonformismo di massa” (Marsilio, 1990), che raccoglie scritti del periodo 1979-1990, ed in particolare nell’articolo “La generazione mancata”, originariamente pubblicato su “Il Giorno”, nel 1983:

“Ho quasi quarant’anni e dicono che la mia è stata una ‘generazione mancata’. Ma poiché questo si dice di tutte le generazioni, non significa granché. Avevo un anno quando è finita la guerra. Non ho fatto la Resistenza. E, per decenza, non ho potuto neanche fingere di averla fatta come invece molti miei fratelli di poco maggiori i quali sono stati tutti, come minimo, staffette partigiane. Così la mia esistenza è stata solcata da gente che mi diceva: ‘Io ho fatto la Resistenza, io ho fatto l’Antifascismo, io ho fatto la Guerra’. E avevano l’aria di rimproverarmi perché io tutte queste cose non le avevo fatte. Per molti anni ho vissuto in stato di inferiority complex. Solo tardi, troppo tardi, ho capito che l’Italia è il paese del ‘garibaldinismo’, degli ‘antemarcia’, del ‘reducismo’ e che i ‘resistenziali non erano migliori degli altri. (…).

Nel Sessantotto ero già troppo vecchio e disincantato per lasciarmi andare all’euforio. Questo mi evitò alcune cantonate, ma mi tolse anche l’unico momento di vitalità che le giovani generazioni abbiano avuto nel dopoguerra”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Fini ;

https://www.macrolibrarsi.it/libri/__il_conformista.php .

I conti tornano: se quelli nati fra il 1918 e il 1928-30-32 sono i “resistenziali” (ma anche i “ricostruttori”, aggiungerei), e quelli nati fra il 1946-1964 i “baby boomers” (ma anche LA GENERAZIONE ORRIBILE), i nati agli inizi degli anni ’40 fanno parte necessariamente di una “generazione mancata”.

Resta da dire, per quale motivo, comunque, la sotto-generazione dei 55-65enni attuali (la mia) non abbia ottenuto, all’interno della GENERAZIONE ORRIBILE, i vantaggi che invece arridevano e arridono (in media, of course), ai 65-75enni attuali …

… che sono, per l’appunto, i “Sessantottini”, e di cui fa parte, seppure “di sguincio”, lo stesso Massimo Fini; del resto le generazioni culturali non si tagliano con l’accetta, e se “il Conformista” non ha fatto il Sessantotto, non è stato solamente perché “troppo vecchio”, ma soprattutto perché “troppo disincantato”, per usare le sue stesse parole.

(Del resto, Mario Capanna, è più “giovane” lui di soli 14 mesi!).

Ho già anticipato che “gli anni Settanta non sono la semplice continuazione del Sessantotto”.

Intendo dire che il “minor appeal” di noi “fratelli minori”, adolescenti e giovani negli Anni Settanta, era già evidente all’epoca.

Ovviamente la generazione dei padri e l’establishment non dovettero esultare quando un’ “orda scolarizzata” di giovani supponenti li emarginò nel Sessantotto (“resistenti” esclusi, che furono sempre trattati con grande deferenza), per prendersi il meglio della Cultura, dei Media, dello Spettacolo, della Musica e dell’Università.

Ma la sedicente “rivoluzione” fu relativamente indolore, anche perché si potè contare su un sistema motivazionale e “premiante”, non solo ben funzionante, ma anche “ricco”, al punto tale che si estese, un po’ a sorpresa, anche agli operai, nel ’69, nel ’70 (“Statuto dei Lavoratori”), e, per inerzia, anche per qualcuno degli anno successivi … dico “un po’ a sorpresa”, perché in una società capitalistica l’operaio è e rimane comunque l’anello debole della catena.

I “premi” (per i giovani: incarichi prestigiosi, spesso immeritati: in quegli entrarono negli organici accademici moltissimi “assistenti universitari” niente affatto all’altezza; per gli operai: salario e sicurezze normative) non durano però in eterno, neanche a volerne scaricare i prezzi sulle generazioni future.

L’esaurimento del sistema motivazionale e premiante può contribuire a spiegare perché lo scontro fra “settantasettini” e Stato divenne molto più aspro: l’establishment e lo Stato non avevano più niente da “dare”.

(Non spiega tutto: per quanto riguarda il Terrorismo, la carenza di risorse e “premi” agisce solamente da concausa, ma comunque spiega il grosso.)

Il mito della continuità fra Sessantotto ed anni Settanta, costruitosi sulla base di riti e liturgie auto-perpetuantisi (Musica, Assemblee, Manifestazioni, Occupazioni) dovrebbe, a mio parere, essere “storiograficamente rivisto”, proprio a partire da questo concetto dell’ “indisponibilità progressiva di risorse”.

Si fecero “figli e figliastri”, all’interno della stessa GENERAZIONE ORRIBILE: alta scolarità, alta supponenza, alte ambizioni, bassissime realizzazioni, e meno che mai in direzione di una “democratizzazione” effettiva. Ma c’è di più: a partire da questa disparità, si andrà a costituire nel tempo strutturalmente un sistema motivazionale e premiante sempre più deficitario, fino a diventare malinconicamente insussistente ai giorni nostri (“fuga di cervelli”).

Si potrebbe ipotizzare che la crisi economica italiana non sia un fenomeno del Terzo Millennio, ma risalga addirittura agli anni Settanta!

Su questo argomento (“crisi economica”) e su un altro importante fenomeno degli Anni Settanta (le “battaglie civili”, a cominciare da Divorzio e Aborto), il mio prossimo interventi per “lintelligente” e per la Rubrica “Pòlis”.

 

 

Gianfranco Domizi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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