Giorgia Meloni, assieme al governo che guida e alla maggioranza che lo sostiene, si è lanciata in un tentativo di riforma costituzionale. È oramai divenuto una abitudine, una usanza consolidata: quasi ogni governo degli ultimi lustri ha tentato (a volte con successo, a volte in modo disastroso) di intestarsi una qualche modifica dell’assetto, degli equilibri, del funzionamento delle nostre istituzioni. In realtà, a rigore, la proposta di Meloni è una doppia riforma. Per far digerire a una parte della propria maggioranza (la Lega in primis) il cosiddetto “premierato”, si è in cambio offerta come contropartita l’autonomia differenziata. Il discorso è opposto e speculare, se letto dalla prospettiva di Fratelli d’Italia: l’autonomia differenziata viene accettata come antipasto amaro in cambio del piatto principale del premierato.
A proposito della riforma, del premierato, in molti in questi giorni hanno preso la parola sottolineando gli elementi dubbi, che sollevano certamente perplessità e probabilmente problemi, in special modo rispetto all’equilibrio tra i poteri e a proposito delle prerogative del Presidente della Repubblica a Costituzione vigente, di fatto fortemente ridimensionate dal disegno di riforma. Le obiezioni nette mosse da quattro ex presidenti della Corte costituzionale (Zagrebelsky, Cartabia, De Siervo, Silvestri) spaziano a tutto campo: dal premio di maggioranza, al dubbio effetto sulla stabilità, dalla sostanziale identità indistinguibile tra Presidente del Consiglio e maggioranza parlamentare, fino appunto al ruolo, che uscirebbe fortemente ridotto, del Presidente della Repubblica. Anche Gianni Letta, pur essendo eminenza grigia del centrodestra, ha avanzato dubbi (anche in questo caso: a proposito degli effetti sulla Presidenza della Repubblica).
Le opposizioni hanno reagito, ma secondo due registri diversi. Una parte del campo progressista rigetta integralmente la proposta e ritiene deleterio discutere di riforme costituzionali. Un’altra parte sembra suggerire la necessità di proporre una alternativa di riforma. Pesano ancora, nel centrosinistra, i fantasmi del tentativo, sconfitto, di riforma ai tempi del governo Renzi. È necessario, oserei dire: indispensabile, collocare, contestualizzare questo ulteriore tentativo di riorganizzazione dell’assetto istituzionale italiano in una cornice più ampia. Perché se è vero, come è vero, che in queste settimane abbiamo assistito all’ennesima puntata del duello tra potere esecutivo e potere giudiziario (con la miccia accesa dal Ministro Crosetto), è anche vero che questo scontro nasconde un attacco congiunta, di durata trentennale, del potere esecutivo e di quello giudiziario contro il potere legislativo. È il Parlamento (e con il Parlamento a cascata tutte le assemblee legislative: i consigli regionali e comunali) ad essere stato, e ad essere ancora, costantemente sotto attacco. È il Parlamento ad avere subito, assai più dei Governi, tante, troppe invasioni di campo da parte della Magistratura: innumerevoli carriere, spesso intere vite, sono state interrotte e distrutte da interventi spericolati di questo o quel magistrato, con indagini finite nel nulla. E mentre si gettava discredito sul Parlamento, tempio della sovranità popolare, si soffiava sul fuoco del leaderismo, del decisionismo, dell’uomo solo (ultimamente anche: della donna sola) al comando. Voci isolate, ignorate e spesso derise, hanno denunciato in questi anni il ricorso eccessivo, il vero e proprio abuso della decretazione d’urgenza. Presidenti del Consiglio di ogni schieramento e colore hanno esautorato il Parlamento, anche grazie alla formulazione di leggi elettorali sempre meno democratiche, sempre meno intese a garantire pluralismo e rappresentatività e invece unicamente piegate alle volontà e ai desiderata di una manciata di segretari di partito o leader di coalizioni. Fino al punto da discutere del Parlamento in termini di costi, e convincere gli stessi cittadini a mutilare un pezzo della propria rappresentanza: tagliare il numero di parlamentari, perché costano troppo e/o perché il Parlamento numeroso è poco efficiente. E man mano che cresceva la disaffezione, più si riduceva la partecipazione (al voto o alla discussione pubblica), una nuova richiesta di riforma sorgeva. È paradossale, ma è ciò che è successo: si chiedono sempre più poteri per chi esce vittorioso dalle urne, mentre le urne sono sempre più vuote. Meno gente crede alla efficacia del voto, più si vuole rendere quella delega, a un singolo individuo (perché la maggioranza parlamentare è sua emanazione) totale, in bianco, sproporzionata, gigantesca. La riforma proposta dal governo e dalla maggioranza attuali è solo l’ultimo tassello di un mosaico. L’ultimo capitolo della storia di una democrazia, la nostra, che, invece di porre rimedio alla disaffezione, all’astensionismo, alla instabilità (generata dalla scarsa rappresentatività), decide di tagliare lo stesso ramo su cui è seduta.
Alessandro Porcelluzzi