Sab. Lug 27th, 2024

Nell’articolo precedente, abbiamo seguito le vicissitudini della “chiacchiera a vuoto”, ipotizzandone una qualche utilità nell’ambito dell’ “evoluzione della specie”.

E ne abbiamo inseguito le forme, partendo dai confronti perpetuamente irrisolventi sul “bello”, e quindi anche sull’ “arte”, evidenziati da Kant (irrisolventi perché, secondo il filosofo, del “bello” si può “contendere”, ovvero dire la propria, ma non “disputare”, ovvero avere la meglio in base ad un’argomentazione logica), per arrivare ai confronti parimenti irrisolventi dei giorni nostri, riguardanti però principalmente politica e cronaca.

Che sul bello ognuno la pensi come vuole, resta comunque pacifico …

… l’interesse dell’argomentazione kantiana risiede in ciò che ne consegue, ovvero nell’interpretazione delle contese irrisolventi non come passatempo e pura chiacchiera, ma come tentativo di integrazione della conoscenza scientifica, mediante l’esperienza quotidiana: svolgerebbero quindi un’importante funzione sociale.

Meno pacifica potrebbe essere invece la constatazione secondo cui l’espressione di un’opinione politica equivalga spessissimo ad una “chiacchiera a vuoto”.

Si potrebbe, argomentare, al contrario, che la “buona politica” è fondamentale per risolvere problemi e prendere decisioni, e che comunque l’espressione della propria opinione, pur essendo ognuno di noi solamente una voce fra tante, contribuisce a far evolvere l’opinione pubblica, spostando il consenso da un partito all’altro, da un’idea all’altra, da un genere di soluzioni all’altro.

Tuttavia, guardando al comportamento degli opinionisti (dal semplice scrittore di post, al blogger e al giornalista) ci si accorge che questo spostamento di consensi avviente in realtà in quantità addirittura irrilevante … e che, anzi, nel corso del tempo, sta prendendo corpo sempre di più un collettivo “negare l’evidenza”: quando i fatti stessi sembrano suggerire di cambiare l’opinione di partenza, o quantomeno verificarla e aggiornarla, essa viene comunque conservata.

Oppure si ricorre all’argomentazione che per definizione tronca la discussione … quella usata da Craxi negli interrogatori sull’inchiesta Mani Pulite: “Noi rubavamo, ma anche gli altri”. E quindi, ai giorni nostri: “Per quanto i fatti sembrino darci torto, danno ancora più torto ai nostri avversari” … “che sanno solamente strumentalizzare fatti e problemi” (massì, aggiungiamoci anche questa argomentazione, oramai diffusissima). Insomma: “Io ho sempre ragione”, e “Noi abbiamo sempre ragione”.

(Il problema è che anche gli avversari ritengono d’averla! .)

A questo punto è ovvio a cosa NON serva un Post … a far cambiare opinione a chi legge.

Ognuno si tiene comunque la sua; e, aggiungerei, lo fa in modo tutt’altro che “filosofico” e pacifico (come avveniva invece nelle contese sul bello artistico) … talvolta in modo rabbioso e ed evidentemente frustrato, in sintonia, del resto, col tono “gridato” di molti Post.

Ed è anche chiaro, viceversa, a cosa serva: a chiamare a raccolta i PROPRI (che non a caso si chiamano anche “followers”, e se non sono “amici”, possono comunque “seguirti”).

Se il Post è ben scritto, ed in teoria “potrebbe suonarle agli avversari” (cosa che peraltro, come dicevo, non avviene, giacché anche gli avversari sanno difendersi benissimo dalle opinioni altrui), si riscuote il “Mi piace”. Il “Mi piace” dei PROPRI, beninteso, ottenuto in tempi brevissimi con l’apposito tasto. Del resto, il tasto: “Grazie di questa documentata opinione”, o, esagerando, il tasto: “Grazie per avermi aperto gli occhi, la tua opinione è servita a farmi cambiare idea sui fatti”, non esistono, e, secondo me, non esisteranno mai!

Esistono ottime argomentazioni sul perché il nostro interesse per l’arte sia diventato assai minore rispetto al Settecento e all’Ottocento (le possiamo rintracciare, per esempio, nella ben nota, ma spesso fraintesa, teoria hegeliana della “morte dell’arte”).

In altri scritti (successivi, novecentesci), ci si riferisce a ciò che ne deriva: la fusione dell’arte, o di ciò che ne resta, con le tecnologia, l’informazione, la cronaca, la politica, lo spettacolo (il capostipite di tale filone di studi è “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, di Walter Benjamin, che essendo tuttavia anteriore, 1936, all’era televisiva, parla essenzialmente di cinema e discografia).

Infine, i sociologi si sono variamente impegnati a spiegare la “fissità” delle nostre opinioni, specialmente politiche, ed hanno scoperto ciò che per altri versi è sotto gli occhi di tutti: si tratta di un tributo alla nostra giovinezza. Ciò vuol dire che chi è stato comunista, fascista, conservatore, liberal in gioventù, continuerà ad esserlo a dispetto dei fatti, spacciando magari “disinformazione” per “coerenza personale”.

Ma per descrivere tutta questa voglia di “piacere” e di “apparire”, anche mediante opinioni irrisolventi e inservibili, ci aiuta poco anche il classico dilemma: “Avere o Essere?”, reso popolare dal celebre libro omonimo di Erich Fromm (1976), giacché, in quel contesto l’ “apparire”, pur svolgendo un ruolo socialmente importante, esplica i suoi effetti in connubio col possesso consumistico e materialistico.

L’ “apparire” di Fromm viaggia, insomma, insieme all’ “Avere”, ed è peranto PRIVO DI AUTONOMIA: ci racconta il nostro circondarci di oggetti costosi e appariscenti per essere ammirati, secondo un filone di pensiero che origina addirittura dalla “Teoria della classe agiata”, di Veblen (1899!).

Oggi, tuttavia, esiste una grande novità: come abbiamo visto, si può “piacere”, e quindi “apparire”, anche senza “possesso” (materiale): può bastare il possedimento “immateriale” di un Post, magari altrui (“condiviso”). E il nostro Fromm, che è uomo tipicamente novecentesco, sia per riferimenti culturali (soprattutto Marx e Freud), sia per anagrafe (1900-1980), questo non poteva prevederlo. Pur scrivendo 8 anni prima di Fromm (1968 versus 1976) l’aveva previsto invece, in qualche modo, Andy Warhol, col suo geniale paradosso: “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes”.

Il paradosso è effettivamente geniale perché fotografa cambiamenti successivi, anche di alcuni decenni, alla sua creazione ed espressione; ed è geniale nella forma, perché una fama di 15 minuti è chiaramente una fama-non-fama, un successo-non-successo, una glora-non-gloria …

… forse assomiglia a quella “gloria da stronzo” di cui canta Guccini ne “L’avvelenata”.

Essere famosi per 15 minuti non è fama, bensì “notorietà”.

Il paradosso di Warhol va però oltre la provocazione, ed introduce un concetto vertiginoso, perché evidenzia come l’apprezzamento si sposti dall’oggetto (arte, politica o cronaca che sia) al soggetto: è il soggetto che “piace”, e che (feisbucchianamente) “ci piace”.

Quello che però neanche Warhol poteva immaginare è che sarebbero bastati 15 secondi!, ovvero il tempo medio di attenzione ad un Post, calcolato anche generosamente.

E siccome chiamarsi fuori dalle grandi questioni della propria epoca è quasi impossibile, e se fosse possibile sarebbe insopportabilmente spocchioso, tocca confessare che aspiro anch’io ai miei 15 muniti.

Se siete arrivati fino a qui, ne saranno trascorsi 5 …

… ma in questo numero de “lintelligente” ci sono altri due intelligentissimi miei articoli, in altre rubriche.

Gianfranco Domizi