Sab. Dic 7th, 2024

Per quale motivo siamo soliti esprimere in vari contesti reali e virtuali (per esempio nei post di facebook) opinioni politiche rabbiose, spesso disinformate, comunque rese ancor più rozze dalla brevità dell’espressione, e per di più indirizzate a destinatari che non sembrano affatto propensi a cambiare opinione, neanche di fronte ad un’eventuale “evidenza dei fatti”?

Ce lo chiedevamo nel numero 0, ipotizzando tuttavia che questa “chiacchiera a vuoto”, foriera apparentemente di una ridicola “guerra di tutti contro tutti”, possa avere invece una qualche utilità nell’ “evoluzione della specie”, e, magari in futuro, nella “rivoluzione della specie”.

La “chiacchiera a vuoto” vanta nobili ascendenze, al punto che la rivalutazione più apparentemente incongrua compare nientemeno che nella “Critica del Giudizio” di Kant … incongrua perché, in quella sede, la “chiacchiera a vuoto” viene accostata a qualcosa che abitualmente percepiamo come “alto”: il giudizio sul bello e sull’arte.

Tre sono i pilastri dell’argomentazione kantiana:

1) Il BELLO esige una condivisione del giudizio, contrariamente al PIACEVOLE. Chiunque trovi un vino “piacevole”, sarà disposto ad accettare il parere contrario di chi preferisce un altro genere di vino, o di bevanda. Col “bello”, no! Una spia linguistica l’abbiamo quando consigliamo un film agli amici: presumibilmente non diremo “io l’ho trovato molto interessante, ma capisco che è un parere puramente soggettivo”, ma diremo invece “é un gran film, vallo a vedere!”. Il problema è che nonostante l’imperatività del consiglio, lo stesso può rivelarsi assai fallibile, ed il nostro amico potrà riferirci in seguito di essersi addormentato in poltrona, durante il primo tempo.

2) Il fatto è che per quanto riguarda il “gusto” (e quindi il bello, e quindi l’arte) “si può contendere (ma non disputare)”: così dice letteralmente Kant nella Critica del Giudizio. Ciò significa che ognuno potrà portare le proprie argomentazioni (“contendere”), ma nessuno disporrà di un’argomentazione “definitiva”, che, in base al suo rigore logico, alla sua sapienza, alla sua pertinenza, possa porre termine alla “disputa”, con una vittoria. Tuttavia, lo ribadisco, in questa apparente disfida, comunque “eterna”, e comunque eternamente irrisolvente, continuerà ad esistere un intento “imperativo”, una voglia, cioè, di convincere l’altro, o almeno consigliarlo, in qualche modo sorprendente, se consideriamo, d’altra parte, l’irriducibile libertà ed il conseguente disaccordo dei giudizi estetici individuali. Questa irriducibile pluralità, con annessa possibilità di disaccordo, si verifica, beninteso, anche nei giudizi sul “piacevole”, ma non alimenta tuttavia discussioni altrettanto accese, giacché un serrato confronto non viene reputato necessario, e manca quindi la materia prima del contendere, ovvero l’intenzione di contendere!

3) Ma perché vogliamo convincere persone tendenzialmente non convincibili? Perché è come se nel bello (arte, ma anche automobili, cravatte, persone -!-) esistesse una regola che non si può esprimere con un teorema o con una dimostrazione: la regola, secondo Kant, della giusta proporzione fra immaginazione ed intelletto (oggi, rivedendo i termini, parleremmo magari di un uso efficace degli emisferi destro e sinistro del cervello) … “Hai presente quel film? Ha stimolato in maniera efficacissima il mio cervello, mettendo in modo gli emisferi destro e sinistro nella giusta proporzione. E questo è vantaggioso per le mie funzioni conoscitive, ma una cosa del genere sarebbe vantaggiosa per le funzioni conoscitive di tutti, e quindi per l’intera società”.

(E’ chiaro che se qualcuno si esprimesse in questo modo, verrebbe portato immediatamente in ospedale; dirà semplicemente che quel film “è bello”, supporto il suo giudizio con argomentazioni, che, come abbiamo detto, non saranno mai “definitive”.)

Tuttavia, l’incongrua ed enfatica reiterazione di consigli espressi in modo imperativo (“Vallo a vedere!”) ci segnala l’importanza della posta, che, secondo Kant, è la conoscenza, ed una società ben fondata sulla conoscenza.

Tutto questo avviene ovviamente a livello inconsapevole, ed è, secondo Kant, connaturato ad ogni uomo.  Ma è anche vero che Kant, da buon Illuminista, sopravvaluta probabilmente la conoscenza come elemento fondante della Società, ed attribuisce a tutti gli uomini “pensieri latenti e nascosti” (riformulazione mia) tipici invece dell’ “uomo colto”.

Per l’ “uomo delle classi popolari” o per l’ “uomo primitivo” l’arte svolge principalmente una funzione intrattenitiva, consolatoria, religiosa o “guerresca”: una funzione, pertanto, “sociale” (riposarsi dal lavoro, ballare, propiziarsi gli dei), mentre “per noi”, la “funzione sociale” è svolta non dall’arte, o almeno non principalmente, ma dalla “chiacchiera irrisolvente” su di essa!

Questo già in Kant. Arrivando al Terzo Millennio, a facebook, ai “post”, possiamo accorgerci di come la “chiacchiera a vuoto” sul bello e sull’arte si estenda alla cronaca, alla politica, alle questioni sociali.

Il mio “sospetto” è pertanto che il bello (e quindi la stimolazione del cervello, con conseguente discussione sociale attorno all’oggetto “stimolante”) non avvenga più principalmente quando ci si trova al cospetto dell’arte e del bello, ma quando ci si trova al cospetto di pressoché qualsiasi cosa (giacché parlare di “cronaca, politica, questioni sociali” vuol dire in definitiva parlare del “mondo”).

Insomma, noi consideriamo oramai il “mondo” non più come qualcosa “da agire” (con la caccia, i raccolti, la guerra o ingraziandosi gli dei), ma come qualcosa “da commentare”.

Ciò avveniva in passato in un territorio “speciale”, quello dell’arte, mentre oggi tracima in ogni dove. Migranti? Commento! Sicurezza? Commento! Evoluzione della Sinistra? Commento! Affari? Commento! Sport? Commento! Belle donne mediatiche? Commento!

Non è che ciò non fosse mai successo precedentemente (anzi: tipicissime, le “chiacchiere da bar”), ma solamente oggi finiamo per riporre grandi ed incongrue speranze nella validità e negli effetti della nostra opinione, ovvero nella capacità di convincere gli altri delle nostre opinioni, magari fondate su un pedestre bricolage di informazione mediatica (le ben note “bufole”, altrimenti dette anche “bufale”).

Vita virtuale”, “chiacchiera” e “bufola” vanno quindi a braccetto, nel Terzo Millennio … del resto, con la terziarizzazione dell’economia (e con la trasformazione della “fatica” agricola ed industriale in “stress”), di tempo da spendere ne abbiamo. E di buone (ma frustranti) motivazioni e intenzioni … pure!

 

Gianfranco Domizi