Dom. Dic 8th, 2024

 Siamo nella sancita “era della tecnica”. Definita così non soltanto per l’enorme quantità e varietà di strumenti tecnologici che il progresso mette a nostra disposizione, ma anche per quella spiccata tendenza alla razionalità, che caratterizza il modo di utilizzarla e di rapportarsi ad essa.

Risulta innegabile che la disponibilità di tanti e tali mezzi, accrescendo i campi di esperienza e ampliando gli spazi di libertà, rappresenti una immane risorsa per l’umanità. Tuttavia l’assuefazione ad essa e la propensione ad usare smodatamente strumenti che sostituiscono alla realtà vera una realtà mediata (in cui tempi e spazi si riducono, gioie e dolori si attutiscono, norme e regole si relativizzano) finiscono con il determinare una drastica perdita di senso che investe individuo e società.

Il problema è che nella nostra era la tecnica non rappresenta più un mezzo per raggiungere scopi, ma diventa l’ambiente in cui siamo immersi: noi non siamo più i soggetti che la scelgono, bensì gli oggetti attraverso i quali essa opera. E’ la condizione che decide le modalità di esperienza, poiché tutto oramai (sogni, desideri, passioni, azioni) è regolamentato dalla tecnica e si esprime attraverso di essa.

Così l’uomo, in quanto strumento della tecnica, si trova in una posizione di dipendenza rispetto ad essa, dipendenza della quale non ha consapevolezza, essendo completamente identificato con la sua funzione.

Essere funzionario della tecnica significa essere altrove, lontano da sé.

In realtà quello in cui l’uomo vive è uno stato di alienazione inconsapevole che conduce ad una perdita di senso. E’ la tecnica stessa a non avere in sé un senso. Perseguendo come unico scopo il raggiungimento del risultato, essa si cura soltanto di efficacia e funzionalità: nessun obiettivo, solo azione funzionale.

La tecnica privilegia l’azione condizionando l’etica, improntata anch’essa all’agire. Così l’identità si risolve in funzionalità, il fine si traduce in effetto. Quelle azioni che dovrebbero essere manifestazioni dell’anima e rappresentare l’identità di un uomo, altro non sono che possibilità calcolate, previste, prescritte dalla tecnica, che non rivelano quindi l’identità dell’uomo bensì quella dell’impianto.

L’avvento di una tecnica di tale portata sembra decretare la fine dell’individuo come soggetto autonomo, indipendente e consapevole della propria individualità. Nella disarticolazione tra pubblico e privato, tra sociale e individuale, vengono soppresse le differenze tra interiorità ed esterno, tra profondità e superficie, tra attività e passività.

Processi di de-individuazione e de-privatizzazione producono società omologate e conformiste. Si assiste ad una massificazione con l’illusione della privatezza, realizzata foggiando individualità su prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa. La vita psichica di ciascuno finisce col corrispondere alla rappresentazione comune del mondo. Il potenziamento delle facoltà intellettive rispetto alle emotive, aggiunge al nichilismo (attivo) dell’operare senza senso quello (passivo) dell’analfabetismo emotivo.

E dove il senso non si trova bisogna inventarlo. E’ questo il maggior compito al quale è chiamata la psicologia nella nostra era.

La psicologia non può prescindere dalla realtà nella quale è immersa e non può assumere posizioni irrazionali di esaltazione o di critica rispetto ad essa. Se si vuole che funzioni, che possa ancora rappresentare uno strumento in grado di promuovere consapevolezza e cambiamento, è necessario che sia ancorata ai tempi, senza cadere nella sterile nostalgia del passato, che promuoverebbe solo disadattamento.

La storia non torna indietro e l’unica via per rimanere protagonisti del suo evolvere è rappresentata dalla capacità di analisi che ciascun individuo è in grado di sviluppare.

La psicologia deve operare su due piani.

Da un lato occuparsi della ricostruzione dell’identità individuale, soccorrendo l’individuo nel reperimento di valori che gli consentano di tornare ad essere soggetto delle sue azioni e di rigenerare la propria energia emozionale.

Dall’altro favorire l’associazionismo fondato sulla costruzione di legami, mirato al perseguimento di fini condivisi che siano in grado di restituire senso all’agire, anche a quello tecnologico. Questo significa promuovere l’agire in vista di scopi e non di mera efficacia. Concepire la condivisione in termini di valore e non di funzionalità.

Lo psicologo oggi deve abbracciare la pratica dell’educazione, piuttosto che quella della terapia. Generare modelli educativi che non siano obsoleti ma che si rivelino capaci di modificare il presente a partire da esso.

Essere in grado di trasformare problemi in progetti mediante strategie contestualizzate alla nostra era, proponendo nuove forme di assimilazione e accomodamento, poiché non può esservi salute mentale che prescinda dalla realizzazione di forme di adattamento.

 

Nunzia Manzo