Sab. Dic 7th, 2024

 Giocasta. O figliuol mio,

                  non negare al fratel

                  l’ultimo abbraccio

                  Breve n’hai tempo: alla tua fama

                  togli tal macchia…

Eteocle.    O madre il vuoi?

                  Sta ben…mi arrendo.

                  Vieni dunque, o fratello, infra le braccia

                  del moribondo tuo fratel che uccidi…

                  Vieni…e ricevi in quest’ultimo amplesso…

                  fratel da me…la meritata morte.

Giocasta.  Oh tradimento!

Antigone.  Oh vista!…Polinice!

Polinice.    Sei pago tu?…

Eteocle.     Son vendicato. Io moro…e ancor ti aborro…

Polinice.    Io moro…e a te perdono

Questo brano è tratto dall’Atto V scena terza del dramma di Alfieri : Polinice (ideato nel 1775 e pubblicato nel 1783)

La vicenda, a cui attinge l’Alfieri, è narrata da “ I sette contro Tebe” di Eschilo e venne rappresentata ad Atene nel 467 a.C.

Secondo il racconto mitologico Eteocle e Polinice erano figli dell’amore incestuoso di Edipo con la madre Giocasta.

Secondo accordi presi, avrebbero dovuto regnare a Tebe a turno, ciascuno per un anno.

Finito il suo turno, Eteocle si rifiutò di lasciare il regno al fratello. I due fratelli, coinvolti nella guerra dei Sette a Tebe, finirono per uccidersi a vicenda.

Polinice infatti  si presentò alle porte di Tebe con un esercito, chiedendo al fratello che venissero rispettati i patti. Nell’ombra agiva intanto Creonte, lo zio dei due fratelli , che ambiva a salire sul trono per cui faceva di tutto affinchè la riconciliazione fra i due non avvenisse. Alla fine Eteocle spinse  il fratello ad un duello e ne restò ferito a morte. Polinice, preso dal rimorso avrebbe voluto uccidersi, ma venne trattenuto e condotto col fratello morente davanti alla madre Giocasta.  La donna supplicò il perdono e la riconciliazione. Eteocle finse di cedere alle preghiere della madre ma in un ultimo abbraccio uccise Polinice, trafiggendolo con uno stilo.

Il dramma si conclude con la morte della stessa Giocasta che, con lo stesso stilo che ha trafitto il figlio, si da la morte.

La tragedia alfieriana, togliendo al Fato il destino dell’uomo, rende questo dramma ancora più tragico e, se vogliamo, moderno. Domina la volontà dei singoli e la sete di dominio,  generatrici  di un odio implacabile.

E poi il mare ci restituisce il mito…

Il 16 agosto del 1972, per un caso fortuito, nei fondali di Porto Forticchio di Riace Marina, furono ritrovate due statue in bronzo.

Oggi, dopo vari restauri, le due statue denominate A e B , sono esposte al Museo Nazionale di Reggio Calabria.

Probabilmente le due statue erano in viaggio da o verso Roma e sarebbero dovute essere esposte in altro luogo. Originariamente dovevano far parte di un gruppo statuario posto ad Argo, come testimoniano le terre di fusione che le fa originarie di quel luogo. I bronzi di Riace sono opere originali della metà del V secolo a.C. e la somiglianza tra loro fa supporre che siano stati realizzati da un medesimo Maestro.

Molte sono le ipotesi sul nome dei personaggi rappresentati, ma la possenza dei corpi, la tensione muscolare, fa supporre che uno ( bronzo A) sia un oplita, l’altro ( bronzo B) un re guerriero.

Si pensa che possano aver a che fare con il mito dei Sette a Tebe, “ mito nazionale argivo”.

Ed eccoci ricondotti a quel mito di cui ho parlato in apertura del mio articolo.

I Sette sono  quei principi greci che con Polinice mossero  guerra contro Tebe.

Tutto era già scritto, i due fratelli andarono incontro alla rovina .

Eteocle sapeva  che il suo destino doveva compiersi.

In una catena di gesti tragici l’uomo è artefice e nello stesso vittima della propria rovina.

E allora mi piace spiare le espressioni impresse nei volti dei due bellissimi guerrieri.

Il vecchio è pronto a colpire, gira il capo e tende i muscoli. Feroce e bellissimo. Il giovane ha uno sguardo ormai rassegnato. Sembra attendere qualcosa che non può evitare.

Ecco che il tempo ci restituisce ferocia, sete di potere e rassegnazione . Eros e Thanatos convivono e si misurano eternamente. Su di loro la Pietà che si fa madre e sorella in Giocasta e Antigone.

Il tempo rende giustizia agli eroi, ma insegna poco agli uomini che verranno.

Il saluto di Antigone, punita da Creonte per la sua pietà verso il fratello Polinice, condannato come traditore della Patria a non avere sepoltura, ci suggerisce che forse ci sarebbe una via ancora percorribile per riscattarsi dall’odio: la libertà di pensiero.

Il non asservimento al potere.

Non pianto, non amici,

Non inni nuziali: a me s’appresta

Sol questa via funesta.

Né la sacra pupilla

Vedere piú m’è lecito

Del sol: per la mia sorte

Da ciglio amico lagrima non stilla.

Anna Bruna Gigliotti

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