Sab. Lug 27th, 2024

Quando la mia fede era impiccata alle fragili corde della giustizia
e in tutta la città
facevano a pezzi il cuore dei miei occhi,
quando soffocarono con il fazzoletto nero della legge
gli occhi infantili del mio amare
e dalle tempie pulsanti della mia speranza
sgorgavano fiotti di sangue,
quando la mia vita ormai non era più nulla,
nulla, se non il tic-tac di un orologio,
capii che dovevo amare,
amare, amare follemente.

Questa strofa è tratta dalla poesia “La conquista del giardino” di Forugh Farrokhzad (Teheran 1935-1967), una delle più grandi poetesse iraniane, di certo la più celebrata tanto che è diventata ora il simbolo della voglia di vivere  e della libertà tanto agognata dalle nuove generazioni.

Donna inquieta e libera, si fa notare alla metà degli anni ’50 con la raccolta “Prigioniera” in cui esprime tutta la sua protesta contro la società maschilista del suo tempo.

Lo Shah Reza Pahlavi cercava di rimodernare il suo Paese che tuttavia restava ancorato ancora a tradizioni e pregiudizi che offendevano e limitavano il ruolo della donna nella società.

Trasferitasi in Europa, dopo il divorzio dal marito che le costerà la perdita dell’unico suo figlio, Forugh riceve premi e riconoscimenti internazionali e in Italia incontra Bernardo Bertolucci che le propone un ruolo da protagonista in un suo cortometraggio. Scriverà un memoriale pubblicato a puntate su una rivista persiana, col titolo “Un’altra terra”. Muore prematuramente in un incidente d’auto a soli trentadue anni il 13 febbraio del 1967. Nell’anniversario della sua morte gli intellettuali del suo Paese si danno appuntamento intorno alla sua tomba, accendono candele e leggono i suoi versi.

La sua epigrafe recita:

“Io parlo dall’estremità della notte

dall’estremità della tenebra

Dall’estremità della notte

io parlo

Se verrai a casa mia, oh mio caro

portami una luce

e una piccola finestra

per guardare la stradina affollata di luce.”

Alcuni versi delle sue poesie, e quelli di altre importanti poetesse iraniane, impresse come tatuaggi indelebili sulle mani, sui piedi, sui visi di donne musulmane, diventano strumenti di riflessione e ribellione  nell’opera fotografica “ Women of Allah” di Shirin Neshat, realizzata tra il 1993 e il 1997. Voci segrete, poetiche, potentissime, di sensuale, struggente bellezza.

La Neshat è un’ artista iraniana di Arte visiva contemporanea che nel 2009 ha ricevuto il Leone d’Argento per la migliore regia alla Mostra del Cinema di Venezia con il lungometraggio

 “Uomini senza donne”. Già ne 1999 aveva ricevuto il Leone d’Oro come migliore artista internazionale.

Per ben comprendere gli ultimi drammatici eventi di questi giorni  che hanno coinvolto le meravigliose giovani donne iraniane , Mahsa Amina, massacrata di botte dalla feroce polizia  morale per non aver indossato correttamente il velo, e Hadis Najafi, uccisa da sei colpi di arma da fuoco mentre manifestava in piazza contro quella barbara uccisione, è necessario capire quali consapevolezze abbiano le donne iraniane del loro ruolo nel cambiamento della società.

Non solo le donne, a manifestare in piazza accanto a loro, che bruciano i veli, si tagliano i capelli, ci sono molti uomini che le aiutano a scappare e le proteggono dalle cariche violente della polizia morale.

Ecco perché è importante che il cambiamento avvenga su basi culturali che incidano fortemente.

Una folla giovane e consapevole del proprio ruolo nella Storia  è un maremoto che, pur subendo repressioni e morte, non può restare inascoltata. Di certo si fa portavoce di tutte le istanze di libertà che si sollevano da ogni parte di questo nostro mondo, soprattutto da quelle Regioni in cui vengono negati i diritti fondamentali. Le donne devono e vogliono farsi portatrici di cambiamento.

Voglio terminare questo mio articolo con i versi  di una delle mie poetesse preferite: Jumana Haddad. Un’attivista, poetessa, scrittrice, accademica libanese, nata a Beirut il 6 dicembre del 1970.

La sua voce si alza libera,  e lei…avviene.

“Hanno costruito per me una gabbia

affinché la mia libertà

fosse una loro concessione

e ringraziassi e obbedissi.

Ma io sono libera prima e dopo di loro,

con loro e senza loro.

Sono libera nella vittoria e nella sconfitta.

La mia prigione è la mia volontà!

La chiave della mia prigione è la loro lingua

ma la loro lingua si avvinghia

intorno alle dita del mio desiderio

e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.

Sono una donna.

Credono che la libertà sia una loro proprietà

e io glielo lascio credere

e avvengo”.

Anna Bruna Gigliotti

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