Sab. Lug 27th, 2024

Si possono promettere azioni, ma non sentimenti, perché questi sono involontari”  sosteneva Friedrich  Nietzsche in:  “Al di là del bene e del male” (1886)

Chi promette a qualcuno di amarlo sempre o di odiarlo sempre o di essergli sempre fedele, promette qualcosa che non è in suo potere; invece può ben promettere quelle azioni, che sono sì, di solito, effetto dell’amore, dell’odio e della fedeltà, ma che possono anche scaturire da altri motivi: giacché a un’azione conducono più vie e motivi.

Certo, ci sono sentimenti che riescono a rigenerarsi costantemente, rimanendo pressoché autentici, ma ci sono anche sentimenti che si trasformano in progetti di vita molto soddisfacenti, all’interno dei quali l’amore viene reiterato come simulazione, come vissuto quasi a ritroso, potremmo dire: l’amore non è più causa di azioni che tendono al reciproco benessere, ma sono le azioni messe in atto per la conservazione della relazione che creano l’illusione emotiva di vivere ancora nell’originario sentimento che ha determinato a suo tempo l’unione tra due persone.  Ma cosa succede quando una relazione conosce una battuta d’arresto, momentanea o definitiva? Soffriamo maledettamente, direte voi! Ed è proprio così! Un dolore emotivo che si ripercuote su ogni cellula del nostro corpo e che da ciascuna di esse lancia un disperato grido di aiuto.

Interrogarsi sulla sofferenza determinata dalla rottura di una relazione amorosa rimanda necessariamente alla disamina della causa di tale sofferenza: la natura dell’amore (argomento che sarà trattato in questo articolo solo in funzione e nei limiti utili ad affrontare il nostro focus).  Senza spogliarlo troppo del misticismo che avvolge il più nobile dei sentimenti,

POTREMMO DEFINIRE L’AMORE COME UN GROVIGLIO EMOZIONALE INCASTONATO DENTRO UN CONCETTO ILLUSORIO CHE DUE VERITÀ DISTINTE E IRRIDUCIBILI CREANO AL FINE DI COMPENSARE LA RECIPROCA DISTANZA. L’AMORE INFATTI AGISCE COME FATTORE AUTOLIEVITANTE CHE, ENFATIZZANDO OGNI ELEMENTO, FA SÌ CHE IL SENTIMENTO VISSUTO TRASBORDI DAL PROPRIO CONFINE CONCETTUALE E SI ESPANDA FINO A RICOMPRENDERE LE OPPOSTE SCATURIGINI. 

Se l’amore in altri termini è una particolare configurazione emozionale, ovvero neurale, che l’altro/a riesce a determinare in noi e che nel nostro intimo risuona come un pervasivo “mi fa stare bene”, la cosa più logica da fare alla fine di una relazione sarebbe ricercare altrove una causa alternativa al nostro senso di benessere, venuto meno assieme alla persona che ne era la dispensatrice. E gli uomini in questo sono bravissimi! Ecco perché sono anche quelli che soffrono meno per amore: all’apparenza più egoisti delle donne, essi non si precludono alcuna possibilità di rimodulare il più in fretta possibile la propria felicità. Diversamente stanno le cose quando questa sofferenza si tinge di rosa: secondo un recente studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’università di Binghamton e dell’University College London che ha condotto un’indagine su 5.705 volontari provenienti da 96 Paesi diversi, le donne provano un dolore maggiore degli uomini, in quanto commisurato al maggior investimento emotivo con cui puntano su un rapporto. Secondo l’antropologo Craig Morris questa accresciuta sensibilità delle donne sarebbe determinata da un’evoluzione che le ha portate anche a far tesoro dei propri “errori” e a diventare sempre più selettive nella scelta di un “buon compagno”. Mi preme a questo punto sottolineare due aspetti che emergono da queste affermazioni:

•         la fine di una relazione non ne sancisce l’erroneità, a meno che ci si aspettava che quella relazione durasse per sempre. Ma, tornando a Nietzsche, in questo caso l’errore sta a monte ed è credere nell’indissolubilità dei rapporti d’amore, basata essenzialmente sullo scambio di reciproche ma inattendibili promesse (formali e informali).

•         Il secondo aspetto riguarda la affinata capacità di scelta selettiva della donna, immediatamente riconducibile al significato di errore: viene da sé che cercare un “buon compagno” non può che significare “un compagno che ci tenga con sé per tutta la vita, che non ci lascerà mai”. La donna sceglierebbe il compagno quindi non sulla base delle proprie personali aspettative, quali presupposti per una piena e diretta realizzazione di sé, ma sulla base delle probabilità che ravvisa di poter ambire a quella felicità di ordine superiore, culturalmente determinata, di poterselo tenere stretto, scongiurando così le nefaste conseguenze di una vera e propria sconfitta esistenziale.

 L’unica evoluzione cui le donne sono state soggette nel tempo in fatto di amore, invece, che le ha letteralmente piegate su un concetto di amore addomesticabile attraverso i codici etici e morali, gli stessi che le hanno plasmate e di cui esse rappresentano socialmente l’onorabile incarnazione, è di ordine culturale. In altre parole, alla donna non viene concessa, ed ella stessa si priva di questa concessione, neppure dopo la fine di una relazione, la possibilità permessa all’uomo di accostarsi ed esplorare liberamente le potenzialità degli altri individui, quali induttori di emozioni positive per il proprio benessere, senza che incomba su di lei la pesantezza del giudizio di un mondo che la espone impietosamente al ridicolo e alla pubblica gogna. E questa è soltanto una tra le più subdole forme di dipendenza “pseudo-affettiva” che avvolgono la donna come una spira soffocante.

 La donna dovrebbe quindi educarsi all’apertura verso gli altri attraverso uno sguardo un po’ più confacente a quella stessa natura che la assimila all’uomo, quel sano egoismo che le permetta di intercettare in assoluta autonomia quelli che potremmo definire in prima istanza i suoi “paracadute emotivi” e che si trovano disseminati tra le persone, gli oggetti, gli interessi situazionali ed intellettuali. Ogni emozione strappata all’oblio di una inutile e penosa sofferenza determina un’azione che mentre scardina la dipendenza affettiva, ci libera gradualmente dal freudiano complesso di mascolinità. Il più forte in amore non è quindi chi fugge, ma chi riesce a munirsi di un buon “paracadute emotivo”.

E se questo sembra troppo scandaloso da accettare, ricordiamo che lo stesso padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, sostenne che “l’individuo conduce una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere”, e cominciamo a farcene una ragione.

Agata Calise

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *