Sab. Dic 7th, 2024

Il rientro in Italia di Silvia Romano è stato l’evento politico e mediatico di questi giorni. Ha oscurato la pandemia, il passaggio dalla fase 1 alla fase 1 e ½ alla fase 2. Persino l’attesa di quel decreto, che come noto è essa stessa decreto, che sarebbe dovuto nascere come le Tesi di Lenin ad Aprile, poi arrivò Maggio, e per scordarcene alla fine fu definito di Rilancio (e preferiamo non interrogarci su quale sia stato il precedente lancio, quando sia avvenuto senza che ne avessimo cognizione).

Su Silvia Romano sono state scritte moltissime cose. Alcune di dubbio gusto, altre decisamente pessime, alcune lacrimevoli e melense, altre interessanti e profonde. Mi permetto di utilizzare la vicenda della conversione non per discutere di Silvia, ma come spunto su un tema più grande di lei (e di me e di noi).

L’Islam da tempo non è più solo una delle tre grandi religioni monoteistiche. In Italia, in Francia, in Europa, in Occidente l’Islam da tempo è letta come religione degli oppressi. Tanta accademia del Nord Ovest del mondo ha diffuso una immagine caricaturale, pregna di semplificazione, degli attributi di oppressori e oppressi. L’Italia è periferia dell’impero, per cui questi messaggi arrivano in ritardo, con meno potenza di fuoco, ma comunque ne subisce l’influenza.

In questo schema binario l’oppressore è maschio, bianco, nativo occidentale, eterosessuale. Cristiano, di qualsiasi confessione e più o meno praticante, o ebreo/sionista.

Nascere o convertirsi all’Islam significa dunque essere fuori, per eredità o scelta, dalla categoria degli oppressori e invece scegliere una parte che è catalogata come oppressa, quindi come innocente e giusta per natura. A volte, come nel caso di Silvia, se chi compie questa scelta, la conversione, è donna, si insiste sul carattere catartico, di liberazione, che tale scelta avrebbe rispetto al patriarcato (altro schema di lettura oppressore/oppressA).

È evidente, a chiunque voglia riflettere seriamente, quanto questo approccio, questo schema di lettura sia fallace. Lo schema Noi/Loro riduce la complessità in un modo inaccettabile. Perché i collettivi con cui si tenta di descrivere in modo binario il mondo sono farlocchi. O meglio: sono autorappresentazioni di chi tenta di cementare comunità artificiali, occultando gli individui che fanno eccezione. Anche se questi individui sono numerosi, numerosissimi.

Si prenda l’esempio francese: chi insiste nel descrivere gli arabi musulmani francesi come la parte più fragile, a più alto tasso di emarginazione, della società ignora o finge di ignorare quanto possa essere ugualmente ghettizzante essere un polacco immigrato, o essere un ebreo in un contesto con continui rigurgiti di antisemitismo.

Come ignora o finge di ignorare che in molti casi i soggetti che si sentono esclusi o marginalizzati hanno un rapporto assolutamente artificiale con la cultura o la religione del Paese di origine dei propri genitori o nonni.

Non si vuole qui negare il dato della appartenenza culturale come importanza, ma non è possibile dimenticare d’un tratto un secolo e mezzo di pensiero socialista, di elaborazione del lavoro come strumento di affermazione, emancipazione, riconoscimento.

E dunque è assurdo accettare uno schema in cui la sola componente religiosa o etnica diviene cartina di tornasole per astratte teorie sul mondo e sui suoi abitanti. Anche perché si può andare incontro a strani paradossi, specie dalle parti di certo femminismo o pseudo femminismo.

Si rivendica la libertà di una donna di convertirsi a una religione diversa da quella in cui è cresciuta, diversa da quella che ne ha plasmato la cultura di origine, come atto di rottura col patriarcato. Senza porsi il dubbio che la religione di arrivo, specie nelle forme sperimentante in prima persona dalla protagonista della vicenda, sia una versione assai più truce del patriarcato.

Questo paradosso è spiegabile in un solo modo: l’identificazione appunto dell’Islam come religione degli oppressi. Quindi il dominio patriarcale, che normalmente si nasconde ovunque, persino come pericoloso neutro nelle forme grammaticali, viene assolto quando a declinarlo siano carcerieri, fondamentalisti, terroristi che hanno però il crisma degli Oppressi del mondo.

È ovvio che si risponde a questo schema non confermandolo, non rispondendo con l’orgoglio da identitari occidentali, da suprematisti. Lo schema si rompe solo se usciamo dalla logica binaria Noi/Loro. Rifiutando di essere inquadrati sotto la prima persona plurale.

Ha scritto Derrida: <<”Noi” è sempre il detto di uno solo…È sempre me che dice “noi”, è sempre un “io” che enuncia “noi” supponendo con ciò, nella struttura asimmetrica dell’enunciato, l’altro assente o morto o comunque incompetente o arrivato troppo tardi per obiettare. L’uno firma per l’altro>>.

Ci si difende dunque da questo processo che a tutti gli effetti è un processo totalitario rifiutando di essere arruolati sotto cornici troppo strette. Rivendicando per sé la complessità della propria identità. L’assoluta irriducibilità dell’individuo, di qualsiasi individuo, a una definizione esauriente, esaustiva, totale; l’identità come necessariamente frammentata, multipla, indicibile (esattamente il contrario degli opposti tentativi identitari di oggi).

È questa forse la vera eredità, di secoli, dell’Occidente tanto bistrattato.

 

 

 

Alessandro Porcelluzzi

 

 

E ORA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO *

 

Ed ora trasmettiamo qualcosa di diverso,

basta con le storie di medici e dottori,

il nuovo che avanza è arrivato da fuori …

… proprio nuovo non è, ma fa crescere il consenso.

Se siamo stati uniti, di nuovo disuniamoci!,

che una grande confusione regni sotto il cielo:

lotte all’ultima croce, guerre all’ultimo velo,

si torna finalmente a: “Cristiani contro Islamici”.

(Non è roba da Brianza, è in gioco il mondo intero;

repliche, per chi lo perse, di “Mascherine e camici”.)

 

*        Titolo rubato ai Monty Python:

https://it.wikipedia.org/wiki/E_ora_qualcosa_di_completamente_diverso

 

Gianfranco Domizi

 

 

 

 

 

 

 

 

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