Mer. Nov 6th, 2024

“Condizionare”, “condizionato”, “condizionamento” introducono nella maggior parte dei casi a significati spiacevoli: sono per definizione “condizionati” gli individui la cui libertà venga limitata da un “agente” esterno.

E pertanto, pur essendo ovviamente condiviso che non sia possibile educare, o prevenire il disordine sociale, senza un minimo di “condizionamento”, non sono mai mancate le voci critiche, o apertamente negative. Alcune di esse sono state brevemente evocate nella Prima Parte dell’articolo, a partire da Marx e dal “marxismo eretico” di Pasolini e Althusser.

Nella Seconda Parte, siamo passati dal piano filosofico e sociologico a quello psicologico, dedicandoci pertanto al seguente tema specifico: verificare se il condizionamento possa rappresentare invece un’opportunità esistenziale e creativa per gli individui, sotto forma di “autocondizionamento” (prendere migliori e più produttive abitudini di vita, magari entro un percorso condiviso insieme a un coach, o un counselor), o di “decondizionamento” (utile soprattutto per evitare comportamenti più o meno auto-lesivi, come il tabagismo o la “mania” di mangiarsi le unghie).

Con questa Terza Parte, torniamo alle questioni generali, commentando due notizie riportate dai Media.

***

La prima: “Faenza, insultano sindaco su Facebook: dovranno fare 15 ore di volontariato. La ‘condanna’ per un gruppo di ragazzi, in maggioranza minorenni. E il primo cittadino ha ritirato la denuncia”. (Edizione bolognese di repubblica.it, 25 Aprile 2018.)

La seconda, più che “una notizia”, è una serie di notizie che ruotano attorno alla parola “deradicalizzazione”, e riguardano misure adottate e/o da adottare nei confronti dei fondamentalisti islamici, se potenzialmente pericolosi (se “conclamatamente” pericolosi, scatta ovviamente il carcere), e soprattutto se minorenni.

Cominciando dalla prima, fanno riflettere le virgolette apposte dal cronista alla parola “condanna”: in effetti, ha senso “condannare” qualcuno a un lavoro “volontario”?

Il quesito non è da poco, e l’ “ossimoro” che ne deriva coinvolge questioni filosofiche anche importanti, come vedremo in chiusura dell’articolo.

Su un piano pragmatico, possiamo chiederci se le misure “accettate” (che poi, ovviamente, non è la parola giusta, considerando che si tratta di un percorso concordato fra ragazzi, famiglie e Sindaco, sul quale sarebbe tuttavia potuta aleggiare, in assenza di intesa, la funzione cogente dello Stato e della Magistratura), essendo state, per l’appunto, “accettate” per prevenire guai peggiori, posseggano una funzione veramente educativa.

La risposta non è semplice: evocando Hegel, e l’ “astuzia della ragione”, possiamo ipotizzare che da un evento negativo possa anche nascere una positività.

Abbiamo visto qualcosa del genere nel film “Quasi amici”, 2011, tratto da una storia vera. Da Wikipedia: Philippe è un ricco tetraplegico che vive in un grande palazzo ed è in cerca di un badante. Tra i tanti aspiranti, elegantemente vestiti e con molte referenze, si presenta Driss, trasandato e rozzo: il ragazzo non è lì per farsi assumere, ma solo per ottenere da Philippe una firma che attesti la sua partecipazione al colloquio, anche con esito negativo, per continuare a ricevere i benefici assistenziali per sé e la sua numerosa famiglia.

Nel film, la “condanna” è di diverso genere: non aleggia lo Stato, bensì la povertà … ma il proseguimento del film ben illustra la tesi “hegeliana” (“si parva licet”) della creazione “astuta” del Bene (“astuzia della ragione”): sostanzialmente involontaria, ovvero non preventivamente cercata.

Tornando alla notizia, potremmo ipotizzare che i giovani “haters” di Faenza non solo finiscano per apprendere la “lezione”, ma anche che la “condanna” possa portare a feconde riflessioni sulla loro vita e sulla loro cultura. Ma non ne sarei così sicuro. Più interessante è l’idea della prescritta “astensione dai social” (la ricordo a mente, e quindi, me ne scuso, potrebbe riguardare questa stessa notizia, oppure notizie similari), che ricorda per certi versi il “contrappasso dantesco”. Come a dire: “Vi importava non solo offendere, ma farlo pubblicamente? Ebbene, questa stessa sfera pubblica e mediatica vi verrà preclusa!”.

E’, a mio parere, la prima misura che dovrebbe essere adottata nei confronti degli “haters”, del “cyberbullismo”, e, per altri versi, dei “tifosi” che inneggiano alla violenza e al razzismo negli Stadi: niente “social” … niente “stadi”: “Daspo”, ovvero, secondo l’acronimo, “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive” …

E così via.

Non si può garantire che funzioni, ma sembra socialmente promettente che l’ “asociale” venga toccato in ciò che effettivamente gli interessa, aldilà di misure economiche e cautelative, che risulterebbero inevitabilmente blande.

Per quanto riguarda i “programmi” di de-radicalizzazione del fondamentalismo islamico, valgono più o meno gli stessi ragionamenti: potrebbero funzionare, o potrebbero generare, nel medio-lungo periodo, reazioni ancora più avverse, considerando la “condanna” subita, ipoteticamente concepita come “ingiusta”.

Siccome non ci si “de-radicalizza” da soli, ci si può chiedere, ulteriormente, se l’Imam sia la figura più opportuna per fare da “mentore” verso il “moderatismo” (su questo aspetto si incentra una buona dose di “ironia plebea” nei commenti sui “social”) …

… e se, qualora vengano coinvolti invece dei “mediatori culturali” di altro genere, se ciò non rappresenti l’ennesimo modo per creare delle occupazioni professionali.

(In Italia, il giochino è evidente, ed oramai fin troppo logoro: non essendo possibile espandere, per vari motivi, le occupazioni “normali”, si “industrializza il problema”: immigrazione, violenza sulle donne, minori, sofferenza psichica, lavoro e disoccupazione, tutto serve: attività, intendiamoci, potenzialmente utili e dignitosissime, se non aleggiassero alcune questioni: che servano più agli operatori che ai destinatari; che il business riguardi gli amici e gli amici degli amici, aldilà di titoli, competenze, meritocrazia, imprenditorialità; e soprattutto che non si voglia veramente aggredire il problema, perché, se così fosse, equivarrebbe a segare il ramo su cui si sta seduti! .)

Riepilogando:

1) Misure di questo tipo funzionano?

2) Si potrebbe fare di meglio, magari attingendo “creativamente” dal “contrappasso dantesco”?

3) Chi ci guadagna, in termini immediatamente economici, ma anche, guardando più in là, in termini politici ed elettorali? E chi ci rimette in soldi, sicurezza e minori attenzioni sociali?

Non sfuggirà, per esempio, che la “sofferenza fisica” (una doppia sofferenza, in quanto coinvolge quasi inevitabilmente anche quella psicologica) in questo periodo storico sia poco “trendy”, e che chi ha malattie invalidanti sia lasciato a se stesso e al “volontariato” (qui la parola è quella giusta …) delle famiglie, impegnate, con sforzi spesso inumani, a surrogare il sistema di Welfare.

Per quanto riguarda le componenti “filosofiche” del problema le abbiamo già parzialmente accennate.

Da una parte, possiamo evidenziare l’ “ossimoro” (è comunque vagamente ridicolo che si possa essere “condannati” ad un’attività “volontaria”): dall’altra, la possibilità di efficaci misure “creative” ispirate richiama il “contrappasso dantesco”, a cui abbiamo dedicato l’immagine che illustra l’articolo.

Aggiungerei un’ultima notazione, e riguarda “Arancia meccanica”: a quasi 50 anni dal capolavoro di Kubrick (1971), e a quasi 60 dal libro di Burgess da cui il film è tratto (1962), entrambi non cessano di proporre suggestioni ed interrogativi.

Le suggestioni sono ben presenti nella memoria di chi ha visto il film, e riguardano sia le rutilanti scene di violenza, sia l’uso dello slang, sia la colonna sonora.

Per quanto riguarda gli interrogativi, citerei soprattutto la “Cura Lodovico”, ovvero le “cure obbligatorie” a cui il protagonista deve sottoporsi, affinché venga destrutturato il nesso fra I due piaceri che hanno, fino a quel momento, orientato la sua esistenza: quello per la violenza e quello per la musica di Beethoven (da cui il nome della “cura-esperimento”).

Da Wikipedia: Al termine della cura Alex viene portato in una sala e sottoposto ad alcune prove a cui assistono, oltre al ministro degli Interni, alcune importanti autorità, e il cui scopo è mostrar loro il buon risultato del condizionamento. (…) Il Ministro osserva compiaciuto il successo del trattamento Ludovico, nonostante l’obiezione del cappellano del carcere (che contesta l’annullamento del libero arbitrio nei confronti del soggetto, che in effetti non sceglie liberamente di operare il Bene, bensì è costretto ad astenersi dalla violenza e dalla sopraffazione solo per la sofferenza e il dolore che ciò gli provoca, rendendolo non solo inabile all’aggressione, ma anche incapace di difendersi), e decide di farlo entrare immediatamente in vigore come soluzione ai problemi della criminalità violenta e del conseguente affollamento delle prigioni. (…). Alex viene scarcerato, ma il suo rientro nella società è tragico: in pratica tutte le persone che prima, quando lui era più forte e violento erano sue vittime, nel momento in cui la situazione si capovolge ed è lui ad essere completamente indifeso ed innocuo, rovesciano i ruoli e prendono il suo posto nel comportarsi da carnefici, vendicandosi.

Il tema del “libero arbitrio” mal si presta ad un articolo giornalistico, ma può essere utile aggiungere ai due temi già evidenziati (“ossimoro” e “contrappasso”) quello del “paradosso”: la rieducazione del carnefice finisce per creare PROVVISORIAMENTE una nuova vittima! (Dico “provvisoriamente” perché nuovi eclatanti sviluppi attendono la vita di Alex.) E, “paradossalmente”, l’hegeliana “astuzia della ragione”, ovvero la creazione del Bene secondo vie misteriose, che passano anche per la provvisoria creazione del Male, si risolve “dialetticamente” (trattandosi di Hegel, l’avverbio viene a proposito!) nel suo contrario: la creazione del Male, in conseguenza delle misure prese per realizzare il Bene!

https://it.wikipedia.org/wiki/Lezioni_sulla_filosofia_della_storia

Gianfranco Domizi

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