Dove andiamo?
Dove ci porta l’inquieta atmosfera?
nei giorni di pioggia,
nei giorni di burrasca,
quando le umide orbite
anch’esse stillano,
stravolte, illuminate,
nel cuore dei temporali?
Quando le persistenti litanie
sbattute dagli scrosci violenti
si frantumano
in mille solitari richiami?
I versi su riportati appartengono al primo scritto di Goffredo Parise: “ I movimenti remoti” del 1948. Ricordiamo che il Parise, nato a Vicenza l’8 dicembre del 1929 e morto a Treviso il 31 agosto del 1986, è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore, saggista e poeta italiano.
Anima inquieta, viaggiò molto: Vietnam, Biafra, Cina, Laos, Cile. Alla fine visitò il Giappone, meta da lui agognata. Straordinari i suoi reportage di viaggio.
l’autore aveva solo diciannove anni quando iniziò a scrivere. Viveva allora in una mansarda a Vicenza. Qui redasse un quaderno di prose e poesie su settanta fogli numerati. Dopo un po’ di anni questi fogli sembravano spariti nel nulla, ma per fortuna nel tempo furono recuperati e dal 2005 l’originale si trova nell’Archivio Parise di Ponte di Piave.
Il primo racconto del manoscritto è la storia di un uomo che muore a causa di un incidente stradale e riprende coscienza dopo essere stato seppellito. La sua anima resta viva e va ricordando frammenti del suo passato. Un purgatorio di memorie che accompagnano il lento scioglimento delle sue carni. I sentimenti diventano movimenti remoti. In questa prima opera s’intravede la purezza cristallina di uno scrittore che saprà parlare con voce nuova, capace di sprofondare in se stesso per raccontare qualcosa di universale. Un linguaggio non capito nei suoi esordi, anzi a volte rifiutato e respinto.
Grazie all’appoggio di Eugenio Montale raggiunse una notorietà internazionale. Nel 1954 finalmente ottenne il suo primo successo letterario con “Il prete bello” , un romanzo di un freddo realismo in cui tanti sono i respiri poetici.
Il Parisi ha un proprio linguaggio poetico, essenziale ed intimo che diventerà sempre più personale e riconoscibile, a tratti ermetico. In controtendenza rispetto ai suoi tempi, l’Italia degli anni ‘70, in cui tutto veniva politicizzato, egli realizzò racconti brevissimi come romanzi in miniatura. Come poesia in prosa. Pubblicati in serie sul Corriere della Sera tra il 1971 e il 1972 e poi fra il 1973 e il 1980, furono raccolti in un volume unico col titolo dei “Sillabari”, con cui si aggiudicò nel 1982 il Premio Strega.
Amo i suoi racconti e il loro autore.
Il progetto dei Sillabari nacque da un suo incontro con un bambino che sotto casa sua leggeva un sillabario su cui c’era una frase: l’erba è verde. Apparentemente una frase semplice, scarna, elementare , ma che invece , come lui stesso disse :
“C’era la vita in quell’erba verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia”.
Un approccio alla realtà decisamente zen.
L’opera dedica un racconto a ciascun sentimento
Bellissimo quello sull’Amore.
Un amore incompiuto, struggente, doloroso fatto di gesti, sguardi. Allontanamenti e ritorni.
Pieno di suggestioni e mistero. Essenziale come la Poesia di cui il Parisi disse:
«La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.»
Amore
Un giorno un uomo conobbe una giovane signora in casa di amici ma non la guardò bene, vide che aveva lunghi capelli rossastri, un volto dalle ossa robuste con zigomi sporgenti da contadina slava e mani tozze con unghie molto corte. Gli parve timida e quasi impaurita di parlare e di esprimersi. Il marito, un uomo tarchiato con occhi sottili e diffidenti in un volto rinchiuso pareva respirare con il collo gonfio e gli ricordò i ranocchi cantanti. Aveva però caviglie fragili e senili e le due cose, collo e caviglie, davano al tempo stesso una idea di forza e di debolezza.
L’uomo sapeva che queste prime impressioni, quasi definitive, non potevano esserlo del tutto perché si sentiva distratto e perché non era accaduto niente, infatti quasi non si accorse quando uscirono dalla casa e non ricordò il timbro della voce di nessuno dei due.
Passò del tempo e li rivide in un ristorante. Anzi, vide soltanto la moglie, ritta presso il tavolo e nel gesto di sedersi: in quel gesto lei scostò da un lato, con un lieve scatto della grossa mano ma poi lisciandoli, i capelli del colore delle carote sporche di terra e fece questo inarcando la schiena. Indossava un pigiama nero, una cintura di metallo dorato appoggiata ai fianchi, scarpette di vernice nera con una fibbia e tuttavia, per una fulminea coincidenza di ragioni tanto misteriose quanto casuali, era bellissima. L’uomo che la guardava da un tavolo non vicino sentì aumentare comicamente le pulsazioni del suo cuore perché capì di avere capito tutto di lei. Anche lei capì tutto di lui (anche che lui capiva) perché in quello stesso istante si girò, lo riconobbe e lo salutò con un sorriso esultante che subito (e ingenuamente) cercò di contenere entro i limiti di una buona educazione da adulti. Ma l’impeto di quel sorriso le aveva per terra per sollevarsi. Fu questione di un momento, poi la donna si rivolse ai suoi commensali con volto gentile ma serio, spesso nascosto dai capelli, e le scarpette tornarono tranquille. L’uomo invece seguitò a guardarla fino a quando le pulsazioni del suo cuore si calmarono. Allora la guardò un po’ meno incantato e un po’ più curioso come fosse, e come avrebbe dovuto essere, una estranea: ma anche questo modo di osservarla, che avrebbe voluto tener conto di particolari banali, non fece che confermare la grande e naturale bellezza della presenza femminile al punto che il ristorante gli parve deserto o tutt’al più avvolto in uno sfarfallio di colori e di suoni come si vedeva in certi vecchi e forse brutti film. L’uomo si sentì improvvisamente debole e riconobbe i segni di una emozione che da quando era bambino e vedeva sua madre salire da un giorno di limpido gelo, il collo sporgente dai renards con le puntine bianche, la bocca rossa e lucida, il neo sulla cipria, erano sempre gli stessi segni. Sollevò gli occhi dal tavolo nello stesso momento in cui anche lei li sollevava obliquamente verso di lui, non più sorridendo ma con il volto percorso da una vampata, ammaccato da un dolore imprevedibile e ingiusto che non capiva. Gli occhi erano mongoli, aperti come se guardasse nel buio.
Una sera, insieme ad amici che nominarono quella coppia, l’uomo si sorprese a dire a se stesso, con voce alta per nascondere l’emozione: «Il destino ci farà incontrare ancora». Gli amici non capirono a cosa si riferisse, ma pochi istanti dopo si udirono alcune automobili e una compagnia rumorosa e allegra, in cui l’allegria non era completa e qualcosa, al contrario, la turbava, entrò nella casa: si guardarono per pochi istanti, anzi si guardarono abbassando lo sguardo. Dopo i primi momenti di timidezza si parlarono. Lei disse che aveva studiato molti anni danza classica ma che aveva abbandonato la danza quando si era sposata, dati gli impegni della famiglia. Ora, ogni tanto, provava una grande malinconia.
«Perché?».
«Mah. non lo so».
«Forse le sarebbe piaciuto diventare ballerina?».
«Mi sarebbe piaciuto, ma sa, pochi riescono, e poi mi sono sposata. Non capisco perché ogni tanto ho una grande malinconia. Eppure sono felice, amo molto mio marito e i miei figli, la nostra famiglia è perfetta ed è, per me, la cosa più importante di tutte. È strano. Mio marito dice che è un po’ di esaurimento nervoso».
L’uomo sapeva che non era strano ma, per rispetto e delicatezza, non lo disse. Volse gli occhi verso il marito, che aveva visto così poco. Stava immerso in una poltrona e avvolto con atteggiamento autoritario e ottocentesco nel suo collo che respirava. Anche quello che diceva era autoritario ma le caviglie deboli toglievano ogni autorità al modo di dire le cose (e anche alle cose) e queste parevano uscire dal largo taglio della bocca con soffi lievi e regolari che si perdevano nella stanza. Egli lo capì e fece pressione dentro se stesso e nella poltrona, evitò di parlare e cominciò in quel modo e da quel momento a gonfiare dentro di sé pazienza e astuzia.
L’uomo osservò che la donna fumava e beveva molto. La sua voce, lentissima e infantile, che esprimeva concetti elementari, era un po’ rauca, di tanto in tanto tossiva. Eppure la sua bellezza era limpida e intoccata come non avesse avuto marito, figli e famiglia e non avesse mai fumato né bevuto.
L’uomo passava molto di rado per la città dove abitavano i due coniugi ma la rivide ancora, tra due finestrini, mentre le auto correvano in direzioni opposte, e lei lo salutò con lo stesso sorriso impetuoso di quella prima sera al ristorante. Ognuno guidava solo nella sua automobile (erano due automobili della stessa marca e dello stesso tipo) e tutti e due frenarono bruscamente. L’uomo aspettò che la strada fosse libera, girò l’automobile e si avvicinò a quella di lei ferma sul lato opposto ma appena giunse vicino la signora riprese a correre ed egli la vide per pochi secondi nello specchietto, con un volto gonfio come di ragazzo che ha preso un pugno molto forte; per questo la lasciò andare.
Un giorno la donna gli telefonò da molto lontano per invitarlo a cena, una domenica. Lui dapprima non capì di chi si trattava, poi fu preso insieme dalla sorpresa e dall’emozione. Le disse che avrebbe fatto centinaia di chilometri, molte volte, soltanto per vederla, e farfugliò un po’. Lei rispose che doveva «mettere giù» il telefono.
Si rividero a una grande festa, il volto di lei, nella grossa testa rotonda era bellissimo, impaurito e infelice ma c’era anche in quel volto, purtroppo, un’ottusa superbia che lo ferì e soprattutto ferì i battiti del cuore che rallentarono e diventarono normali. Quando ebbero occasione di parlarsi (ma lei lo sfuggiva e lui ballò tutto il tempo con una donna bella che rideva rovesciando la testa) gli disse che era offesa e disgustata per quanto le aveva detto al telefono. Era felice, molto felice e innamorata del marito, il loro matrimonio era «una cosa superiore, eccezionale». Gli disse che aveva raccontato al marito di quella telefonata perché non c’erano segreti tra loro due. Nel dir questo sorrise con fierezza ma il suo volto era tumefatto dal dolore e dalla vergogna e due solchi erano apparsi agli angoli della bocca fin quasi al mento. L’uomo guardò il marito che li aveva osservati di sottecchi e ora si aggirava, un po’ curvo e ondulante, perdendo e conservando autorità. A un certo punto si sedette su un gradino fingendo di seguire la musica dell’orchestrina lì accanto, e con la gola e gli occhi rivolti all’insù mandò un urlo acido, raspante, che nella confusione della serata nessuno udì.
Improvvisamente la donna disse: «Mi lasci stare», si scostò dall’uomo inarcando la schiena e con passi dolorosi e danzanti andò a posare la fronte contro i vetri di una finestra con il bicchiere di whisky in mano. Più tardi qualcuno disse che aveva pianto e fatto anche una scenata, forse perché aveva bevuto.
Nonostante tutto l’uomo fu invitato da loro a una grande cena ed egli non volle rifiutare, per educazione e perché desiderava vederla ancora. Sedette alla destra di lei che manteneva i solchi ai lati della bocca, gli parlava con sfida contadina e non sorrise mai, se non in modo sprezzante e senza mai distendere il volto qua e là sconvolto da quei gonfiori. In due o tre occasioni accadde che le mani o le spalle dei due si toccassero ma lei si ritrasse, offesa. L’uomo stette bene attento che non accadesse mai più un simile caso e allontanò la sedia, poi addirittura si alzò e girovagò un poco per la casa. Passando per un corridoio semibuio, ad ora inoltrata, incontrò una bambina in camicia da notte, sperduta, rossastra come la madre, che egli carezzò sulla testa; la bambina gli prese subito la mano, se la posò sul petto, gliela strinse come accade nel sonno guardando davanti a sé il corridoio con lunghi ciuffi di capelli addormentati in aria. Poi si staccò dalla mano di lui e andò chissà dove. L’uomo tornò nella grande sala da pranzo dove il marito distribuiva champagne: lei stava sempre seduta a capotavola, forte e severa; il marito sorrideva ed era buono e servizievole.
L’uomo tornò sempre più di rado in quella città. Non vide più la coppia degli sposi, pensò a lei e sempre gli parve che fosse passato molto tempo. Invece erano passati solo pochi mesi ma il sentimento che lui e la giovane signora avevano provato (e qui descritto) era tale che essi, senza volerlo e senza saperlo, avevano vissuto e disperso nell’aria in così poco tempo alcuni anni della loro vita.
Anna Bruna Gigliotti