Mar. Mar 19th, 2024

Amore mio, se muoio e tu non muori,
amore mio, se muori e io non muoio,
non concediamo ulteriore spazio al dolore:
non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto.
Polvere nel frumento, sabbia tra le sabbie,
il tempo, l’acqua errante, il vento vago,
ci ha trasportato come grano navigante.

Questa su riportata è la prima strofa della poesia “Amore mio, se muoio e tu non muori” di Pablo Neruda.

Un epitaffio scritto nel frumento, sulla sabbia, sull’acqua. Nel vento.

Perché proprio questa poesia? Perché il 23 Settembre 1973, moriva a Santiago del Cile Ricardo Eliezer Reyes Basoalto, per tutti Pablo Neruda, Premio Lenin per la pace nel 1953, Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Definito da Gabriel Garcia Marquez il più grande poeta del XX secolo.

Sicuramente tutti sanno che, oltre ad essere un grande intellettuale, ricoprì nel proprio Paese incarichi diplomatici e politici. La sua adesione al comunismo lo costrinse a espatriare per la sua ferrea opposizione al governo di Videla (a tal proposito ricordiamo il bellissimo e poetico film“ Il postino”del 1994, diretto da Michael Radford, e ultima fatica cinematografica del nostro Massimo Troisi e che narra l’incontro del Neruda, esule in Italia, con un uomo semplice che aspira a diventare poeta egli stesso).

Il Neruda, tornato in patria, sostenne la candidatura di Salvator Allende.

Il golpe di Pinochet del 1973, due anni dopo il Nobel, spense i suoi sogni di libertà.

Ammalatosi gravemente, morì in un ospedale di Santiago proprio quando si preparava a partire per un nuovo esilio. Tanti dubbi restano sulla sua morte improvvisa. Indagini sono ancora in corso.

In quegli anni molti furono gli intellettuali esuli, tra cui Isabelle Allende, parente di Salvator Allende. La grande scrittrice cilena, una delle voci più interessanti del genere letterario conosciuto come realismo magico, troverà rifugio a Caracas in Venezuela e oggi vive in California.

Il pomeriggio del 23 settembre, quindi qualche giorno fa, stavo sfogliando il libro “La casa degli spiriti” di Isabelle Allende. Il romanzo, opera prima dell’Autrice, pubblicato a Buenos Aires nel 1982, è un grande affresco familiare. Nella tenuta di proprietà di Esteban Trueba si mescolano le passioni dei protagonisti. Amore, magia e mistero si respirano insieme alle violenze e agli orrori della guerra che in Cile portò all’ascesa di Pinochet.

Durante la lettura un po’ frettolosa, lasciavo che il mio sguardo saltasse tra un capitolo e l’altro per catturare qualche frase o passo narrativo e mettere a fuoco la storia, quando mi sono soffermata sulla descrizione del funerale di Pablo Neruda.

Le esequie del Poeta ebbero una valenza che andò oltre l’atto collettivo di commiato. Significò agli occhi del mondo il riscatto di una parte di quel popolo, quella più martoriata. La sua volontà di esserci ancora. Tra due ali di militari armati di fucili e mitragliatrici il corteo funebre procedette per le vie di Santiago, portando garofani rossi e intonando l’Internazionale e cori in ricordo di Neruda, del Presidente Allende e di Victor Jara, tutti tragicamente scomparsi in meno di due settimane. Se i militari avessero aperto il fuoco, sarebbe stata una carneficina. Ma non lo fecero. Probabilmente sapevano che un tale gesto avrebbe causato il biasimo dell’intera comunità internazionale, vista la fama di Neruda e la presenza di giornalisti stranieri a documentare l’evento.

A tal proposito, riporto il passo del libro” La casa degli spiriti” della Allende.

La sua potenza descrittiva, mi ha sempre catturata e la coincidenza di poter rileggere quella pagina proprio nel giorno della ricorrenza della morte del grande poeta cileno, mi ha letteralmente spiazzata. Quando la magia delle parole mi parla io ne inseguo le tracce.

La gente camminava in silenzio. D’improvviso qualcuno gridò rocamente il nome del Poeta e una sola voce a piena gola rispose Presente! Ora e sempre! Fu come avessero aperto una valvola e tutto il dolore, la paura e la rabbia di quei giorni fossero usciti dai petti e circondassero la strada e salissero in un terribile clamore fino ai neri nuvoloni del cielo. Un altro gridò: Compagno Presidente! E tutti risposero in un unico lamento, pianto di uomo: Presente!
A poco a poco il funerale del Poeta si tramutò nell’atto simbolico di seppellire la libertà.
Molto vicino ad Alba e a suo nonno, i cameramen della televisione svedese filmavano per inviare al gelido paese del Nobel la visione spaventosa delle mitragliatrici appostate ai due lati della strada, le facce della gente, la bara coperta di fiori, il gruppo di donne silenziose che si accalcavano alle porte dell’obitorio, a due isolati dal cimitero, per leggere la lista dei morti. La voce di tutti si levò in un canto e l’aria si riempì delle frasi proibite, gridando che el pueblo unido jamàs serà vencido, fronteggiando le armi che tremavano nelle mani dei soldati. Il corteo passò davanti a una costruzione e gli operai, gettando a terra i loro strumenti, si tolsero il casco e formarono una fila a testa bassa. Un uomo marciava con la camicia lacera ai polsini, senza gilet e con le scarpe rotte, recitando i versi più rivoluzionari del Poeta, con le lacrime che gli scendevano sulla faccia.

Voglio terminare questo articolo con la seconda strofa della poesia di Neruda, perché la sua voce in noi sempre canti:

Avremmo potuto non incontrarci nel tempo.
Questa prateria in cui ci siamo trovati,
oh piccolo infinito! la rendiamo.
Ma questo amore, amore, non è finito,
e così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra.

 

Anna Bruna Gigliotti

 

 

 

 

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