Sab. Dic 7th, 2024

Rubo l’idea che anima il titolo dal notevolissimo “Essere John Malkovich”:

https://it.wikipedia.org/wiki/Essere_John_Malkovich

… per esprimere un pensiero che mi è caro … cosa si proverebbe a vivere la vita degli altri, e magari osservare se stessi mentre si vivono.

E’ ovvio che si tratta di fantascienza al cubo: dovresti espropriare qualcuno della sua vita per un tempo X; diventare lui, ma rimanendo contemporaneamente te stesso; e grazie a ciò osservare lucidamente le situazione. Ma è una fantascienza stimolante, e può assumere la forma di una duplice domanda, che allude all’empatia e all’immaginazione: “Cosa avrei fatto al suo posto? E che cosa avrei provato?”.

Escluderei, se potessi, di andare a sostituire persone che vivono vicende drammatiche. Ma magari per 24 ore si può (?). Escluderei pure, però, di voler diventare un uomo, o una donna, “di successo”.

La frequenza con il cinema mi ha insegnato che l’artista di “successo”, a un certo punto, invece di produrre qualcosa che gli è “urgente”, comincia spesso a produrre quello che gli viene “più facile”. Non obbligatoriamente per compiacere il pubblico, la critica, i committenti. E’ che la vena “difficile” è andata ad esaurirsi.

Cineasti che ho amato (Alain Resnais) e che non ho amato (Fellini, Godard) hanno trascorso una parte “declinante” della carriera, quantomeno dal punto di vista dell’ispirazione, tendenzialmente anche per quanto riguarda il successo mediatico, a replicare se stessi. Con minor efficacia. Ma anche ammesso che l’efficacia sia paragonabile, c’è vero gusto a replicare una formula, seppur con le necessarie variazioni?

L’insuccesso è molto più potente: se non ti abbatte, ti sospinge a cambiare, e quindi anche a sperimentare. Al limite, ancora più interessante il successo altalenante. E’ nel suo seno che le domande proposte in apertura dell’articolo: “Cosa avrei fatto al suo posto? E che cosa avrei provato al suo posto?” … trovano la migliore applicazione.

(Ogni tanto provo inoltre a mettermi nei panni degli attori e dei registi che girarono con Gloria Guida e con l’Edwige, attingendo a un successo mediatico comunque meno interessante del costante divertimento con cui quelle vicende cinematografiche erano presumibilmente vissute. Insomma, “se la godevano”. Non solo per le belle donne. Non saprei dire, peraltro, con se le attrici ripensino oggi alle loro performance con altrettanto piacere.)

Antonio Racioppi, chi era costui?

Da WIKIPEDIA: “Antonio Racioppi (Roma, 1925-2013) è stato un regista e sceneggiatore italiano, attivo fino alla prima metà degli anni ottanta. (…) Gira in totale una decina di pellicole nell’arco di una trentina d’anni che vede protagonisti tra gli altri diversi attori di prestigio, tra cui Vittorio De Sica e Nino Manfredi. (…) Fu attivo anche come sceneggiatore, infatti scrisse egli stesso la maggior parte delle sceneggiature per i suoi film e collaborò anche alla stesura di altre per alcuni colleghi sia per il cinema che per il teatro dove spesso ne curò anche la direzione”.

Non stiamo parlando evidentemente di un uomo sprovvisto di talento. Eppure, se scendiamo nel dettaglio, possiamo trovare un esordio quasi folgorante, a 31 anni, con una commedia interpretata da Vittorio De Sica, Giovanna Ralli, Marisa Merlini, Maurizio Arena, Gabriele Tinti, Memmo Carotenuto, Abbe Lane (sic!) e Nino Manfredi. “Tempo di villeggiatura”, 1956: soggetto e sceneggiatura di Luigi Zampa, Luigi Magni, Age & Scarpelli. E scusate se è poco! Ma dopo tre film a proposito dei quali non esiste una pagina su WIKIPEDIA (tre formidabili insuccessi, direi), ritorna alla ribalta solamente negli anni settanta con cinque film ben accolti dal pubblico, ma di non ampie pretese, due dei quali sono già eloquenti a partire dai titoli (Il Decamerone proibito, 1972, co-regia insieme a Carlo Infascelli, e Le mille e una notte all’italiana, stesso anno, sempre in co-regia); La mano nera (1973) è presumibilmente finalizzato a sfruttare il successo di pubblico dello sceneggiato RAI dedicato a Joe Petrosino (1972).

A 48 anni la sua carriera cinematografica termina di fatto. Anche dell’unico successivo (Infinito, 1986), non esiste una pagina, e a mia memoria (che per quanto riguarda il cinema è veramente buona) non deve aver lasciato traccia.

Cosa possiamo immaginare, a partire da ciò? Una vita improntata già a 40 anni, e fino ai 50-55, da progetti rifiutati dall’industria? Un sereno dirottarsi verso il teatro? Sapidi racconti ai figli e ai nipoti sull’Italia della ricostruzione, e sugli irriverenti, per quanto drammatici, anni settanta?

Io adoro gli uomini di insuccesso, o di successo altalenante, perché in una relazione, in una conversazione, in un’intervista, sono quelli che hanno maggiormente da dire e da dare. Alcuni ne ho conosciuti, per altri mi devo contentare delle biografie su Internet (che è comunque un progresso, rispetto all’oblio). Forse non hanno scelto di diventare “diversamente artisti”, e quindi “diversamente sociali”. Ma sono convinto che dalle loro traiettorie individuali ci sia molto da imparare.

 

Gianfranco Domizi

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