Mer. Nov 6th, 2024
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“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori

Questa è la frase di Mussolini, incisa con lettere fasciste sul “Colosseo quadrato”, alias Palazzo della Civiltà italiana, all’Eur.

Erano altri tempi allora, e il “popolo”, leggendo quelle parole si inorgogliva. Ognuno cercava per sé la definizione più adatta e chi non la trovava, si accontentava di avere nella sua genia tracce ancor vive e vegete di una qualche trasmigrazione. E chi non ha mai pensato che l’Italia, sempre e comunque, ha importato cuore e pizza, ma anche intelligenza e quel pizzico di furbizia che ben si coniugano con l’arte di arrangiarsi sempre e ovunque?

L’Italia ha partorito nei secoli figli ossequienti e grati, ma anche ribelli e ostinati che quando gli salta la mosca al naso, non gliela mandano a dire, per voler usare un frasario popular poco chic.

Per quanto riguarda artisti e poeti, se ne potrebbero citare davvero tanti.

Tra i figli grati mi viene da annoverare Mino Reitano per la sua canzone “Italia”:

Italia, Italia 
Di terra bella e uguale non ce n’è
Italia, Italia
Questa canzone io la canto a te

 

Cito questa perché mi viene sempre in mente la commozione di questo cantautore, figlio di migranti, mentre la cantava, e la sua schietta gratitudine era davvero tangibile.

Di contro potremmo menzionare uno dei nostri più amati cantautori, Fabrizio de Andrè, che ha dipinto col suo pennello canoro un paesaggio socio politico ben diverso. Dove corruzione, opportunismo, ingiustizia oscurano da sempre la bellezza del nostro Bel Paese. Però basta una tazzina di caffè e tutta l’amarezza si ingoia e…. si tace:

Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son brigadiero del carcere oinè
io mi chiamo Cafiero Pasquale
sto a Poggioreale dal ’53 (…)
Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè (…)

Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s’indigna, s’impegna
poi getta la spugna con gran dignità.(…)
Ah, che bellu ccafè
pure ‘n carcere ‘o sanno fà
co’ ‘a recetta ch’a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà

 

 

Questa succitata canzone , come tutti sanno, è la famosissima ”Don Raffae’, ma forse non tutti ricordano che qui si riprende un verso di una vecchia canzone di Domenico Modugno di parecchi anni prima: ‘o ccaffè. Questa spiega a suo modo la “filosofia del caffè” (e fermati un momento e beviamoci un caffè! Nessuno dice no perché è un’offesa).

Ah, che bellu cafè,
sulo a Napule ‘o sanno fa’
e nisciuno se spiega pecché
è ‘na vera specialità!

 

Tra i figli ribelli, inoltre, come non annoverare il più illustre di tutti, Pierpaolo Pasolini, che nella sua poesia “Alla mia nazione” si esprimeva così:

(…)Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino.(…)

 

E che dire poi dei Santi? Il nostro Paese ne ha così tanti che ognuno di noi ha sul proprio nome le stimmate sacre del suo Santo protettore.

Mai ci fu luogo più ameno in fatto di santificazione. Mai luogo in cui uomini hanno santificato e santificano così tanti uomini e…così sia!

Comunque, alla fine di questo discorso sulla tanto nostra amata o criticata italianità, non vorrei dimenticare di citare uno dei miei autori preferiti, Italo Calvino, e quel suo piccolo immenso libro che brilla come un diamante: Le città invisibili.

Soprattutto perché in una di quelle surreali città, Moriana, individuo le vestigia della nostra bella Italia:

Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.

 

Anna Bruna Gigliotti

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