Sab. Lug 27th, 2024

“Anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.”

Quasi sicuramente gli amanti della poesia avranno capito che la frase su citata è stata tratta dal romanzo “ I quaderni di Malte Laurids Brigge”di Rainer Maria Rilke che, come tutti sapranno, è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema. È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo.

Bene, però non è mia intenzione parlare della sua poetica, almeno non solo. Piuttosto dei ricordi del passato che all’improvviso riemergono sovrapponendosi al presente e rinascendo come una Fenice luminosa.

La chiamano déjavu la percezione di una situazione vissuta in precedenza, ma in realtà legata a qualcosa che è appena accaduto o che abbiamo visto. E vorrei parlarvi proprio di questo.

Qualche giorno fa ero all’isola d’Elba per una breve vacanza. Amo quest’isola e non solo per la sua indiscutibile bellezza, ma soprattutto perché era cara a mia madre che vi ha trascorso tutta la sua giovinezza. Quando ne sono lontana mi manca il respiro del suo mare, il colore acceso dei fiori, il sapore del pane, ma soprattutto la spiaggia della Galenzana, in una baietta dietro il porticciolo di Marina di Campo, che mamma da ragazza raggiungeva a nuoto, ma che io, meno coraggiosa e meno abile, ho preferito, nelle numerose estati dei miei ritorni all’isola, raggiungere in barca.

C’è un altro modo però per arrivarvi: un sentiero tra il verde della macchia mediterranea.

Qualche anno fa era impervio, una specie di mulattiera a tratti disagevole, ma oggi percorribile con facilità. Ed è quello che ho fatto una mattina, colta dalla nostalgia, mentre percorrevo la scalinata di via Bellavista, attraversando lo storico borgo dove ha abitato mia madre , oggi ristrutturato.

Continuando a salire sono giunta nella parte più alta del paese da cui si può ammirare il panorama sul golfo di Marina di Campo. Da qui ho preso il sentiero n° 39 che conduce alla Galenzana.

Mentre proseguivo il cammino in gran parte su terreno asfaltato e per brevi tratti sterrato, sulla mia sinistra, in basso, ho individuato il piccolo golfo e la sua tranquilla spiaggetta.

Provavo una lieve vertigine. I ricordi premevano per riaffiorare e quel golfo che vedevo non era più il medesimo. Quel mare un altro mare.

Ero sempre io, ma percorrevo un altro sentiero, quello di Rilke, a Trieste, in compagnia di un mio amico triestino, poeta anche lui, con cui condivisi, anni addietro, passi e versi.

Quello che il mio ricordo, prima confuso, poi sempre più nitido, mi riportava era lo stesso mare del golfo di Trieste che vedeva Rilke dalla finestra del castello di Duino, che si erge su uno scoglio di roccia calcarea, dove il poeta, all’inizio del Novecento soggiornò, ospite della principessa Maria Thurn und Taxis. Oppure mentre percorreva il sentiero in un bosco che sovrasta quel tratto di mare che oggi porta il nome di “ Sentiero Rilke”, meta obbligata per chi arriva in quei luoghi e vuole respirare la poesia.

Eh sì, perché proprio a Duino Rilke cominciò a scrivere le Elegie.

Nel gennaio del 1910, passeggiando sulla scogliera carsica, si dice che, a un tratto, udì una voce interiore suggerirgli alcuni versi di un componimento poetico che divenne poi la prima delle sue celebri elegie: «Se pur gridassi, chi m’udrebbe dalle gerarchie degli angeli?».

E se pure d’un tratto

uno mi stringesse al suo cuore; io languirei della sua

più forte presenza.

Poiché il bello non è nulla,

null’altro che, del terribile, principio che noi appena sopportiamo ancora,

e tanto lo ammiriamo, perché esso disdegna, quieto,

di distruggerci. Ogni angelo è tremendo.

E dunque io mi contengo, e serro in gola il richiamo

d’oscuro singulto. Ah, di chi sappiamo

giovarci? Non uomini, non angeli,

e le acute bestie già notano,

quanto poco sa per noi di focolare

il mondo interpretato. Forse ci resta

un qualsiasi albero sul declivio, così che ogni giorno

lo possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri

ed il viziato esser fedeli ad un’abitudine,

che da noi bene si trovò, e così restò e non se ne andò.

Ne riporto solo una parte di quella sua prima elegia, perché il Poeta meriterebbe una trattazione più approfondita, ma non è questa la mia intenzione. Non oggi almeno.

Io volevo solo raccontare un mio luogo della memoria. Dove i ricordi restano e attendono.

Sarà stato il soffio del vento sui cespugli di macchia, quel battito d’ali di gabbiano, quel suo grido, che mi ha fatto volgere lo sguardo in alto, verso altri voli, o la solitudine del sentiero, a restituirmi la dimensione lirica di un poeta che si proponeva di ‘vedere’ il profondo delle cose.

Chissà…mi piace pensarlo e illudermi di riuscire, a volte, a vedere le cose con sguardo diverso e a coglierne, per la durata di un battito d’ali, la profondità.

Annabruna Gigliotti

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