Mar. Nov 5th, 2024

Lunedì 30 Maggio i lavoratori della scuola hanno scioperato. La notizia dovrebbe essere questa, innanzitutto. Lo è perché allo sciopero degli insegnanti e del personale ATA i telegiornali del servizio pubblico hanno dedicato pochi secondi. Appena meglio è andata sui notiziari Mediaset e de La 7. Gli insegnanti, le scuole non fanno (più) notizia. Perché, sicuramente qualcuno con buona memoria lo ricorda, durante la pandemia, secondi solo a medici e paramedici, gli insegnanti di ogni ordine e grado sono stati beatificati e santificati. L’Italia si era riscoperta attenta alle sorti dell’istruzione pubblica, si intessevano lodi agli eroici insegnanti che, sorpresi dai lockdown, con ardore si erano lanciati in una didattica nuova, inedita, la didattica a distanza o didattica digitale integrata senza timore e senza titubanze. La missione dell’insegnamento conteneva già una trappola retorica. Perché i missionari non sono lavoratori, e beati e santi non discutono di stipendi e condizioni di lavoro. Ciò era vero anche nella primissima fase della pandemia, quando appunto quasi nessuna regolazione, se non un tardivo accordo ex post, aveva lanciato gli insegnanti senza protezione in una selva di eccezioni al contratto. Orari sballati, connessione continua, reperibilità estesa all’infinito, fine dell’equilibrio vita/lavoro: questi sono solo alcuni degli aspetti nocivi che la pandemia ha introdotto, e che in parte sono ancora dentro la vita della scuola.

Come per altre categorie (personale sanitario e personale delle forze dell’ordine) una ulteriore rottura all’unità di una categoria già frammentata è venuta dall’obbligo vaccinale e soprattutto dalle sanzioni ad esso collegate. Al di là della idea che ciascuno ha maturato rispetto a tale provvedimento, e in generale al tema vaccini, è innegabile che la durezza dei provvedimenti abbia determinato una frattura. Soprattutto perché su questi temi non solo il dibattito pubblico in generale, ma anche il dibattito (già scarso) interno alla categoria è stato nullo o ridotto a polarizzazione colpevolizzante. Per intenderci: tra chi parlava di dittatura sanitaria e chi di negazionismo. Il Decreto Legge 36/2022 arriva ora a imporre, o a tentare di imporre, l’ennesima riforma sui temi della formazione, del reclutamento, del salario e della carriera. Ed ecco che i beati, i santi, i missionari sono costretti ad affrontare temi di grande pragmatismo. Il cielo è infine caduto sulla terra. E quindi ci tocca, once again, immaginare complessi sistemi di incentivi: per sperare di accedere a una quota premiale di salario occorre aderire a una formazione obbligatoria e dopo un triennio di tale formazione sperare di rientrare nella quota, prestabilita, di doppiamente meritevoli.  O, sul reclutamento, accettare formule alchemiche che avviano percorsi abilitanti e professionalizzanti, diversi in base al titolo e al numero di mesi di docenza alle spalle, alla fine dei quali in alcuni casi si accede a un esame finale, in altri al contratto a tempo indeterminato, in altri a quote speciali per la stabilizzazione. Se leggendo gli ultimi due periodi vi è venuto mal di testa, avete colto la vera intenzione del Ministro.

Ovviamente in tutto questo il tema centrale, ovvero il salario, è toccato solo con una proposta di aumento, dopo anni di contratto bloccato, pari a 40/50 euro netti. E poiché le scuole camminano anche e soprattutto grazie al personale non docente, il cosiddetto personale ATA, per questa categoria, anche nel vertice amministrativo, i DSGA, non c’è una virgola, né un euro in più, nel famigerato decreto.

Mentre stiamo scrivendo continuano ad arrivare i dati sulle adesioni allo sciopero. Al momento si parla del 10%. Rinunciare a un giorno di salario, specie quando si tratta del salario di un insegnante, non è mai semplice. Quindi quel numero, in parte, racconta della indigenza, più che del disimpegno. E tuttavia sappiamo bene come categorie anche più deboli sul piano del reddito abbiano in passato condotto lotte più lunghe e dolorose. Ma quelle lotte erano condotte sulla base di due presupposti, entrambi assenti, oggi, nel mondo della scuola italiana. Il primo è la comunanza di visione e di prospettiva. La categoria degli insegnanti, e dei lavoratori della scuola in generale, è finita frammentata, triturata, polverizzata. Nella scuola ci sono insegnanti di ruolo e insegnanti a tempo determinato; e tra gli insegnanti a tempo determinato: non abilitati, abilitati attraverso concorso, abilitati secondo il titolo, abilitati con percorso non selettivo, con contratto al 30 Giugno, a fine delle lezioni, supplenti brevi ecc. ecc. Le diverse riforme hanno poi introdotto figure, più o meno chiare, di middle management (collaboratori del Dirigente scolastico, figure strumentali, coordinatori di classe, di dipartimento) che hanno ulteriormente segmentato il mondo del lavoro scolastico.  Il secondo elemento, che accomuna la scuola a ogni altro luogo di lavoro e della vita pubblica, è l’incapacità di costruire punti di incontro, mediazioni, compromessi soddisfacenti tra simili. Poiché la regola è la polarizzazione continua, che si trasforma in binarizzazione (se non sei d’accordo con me, devi sparire), ciascuno si sente minacciato continuamente. E la prossimità è avvertita come il pericolo maggiore (il contagio è la metafora più potente). Dunque più facile arrendersi a una forza lontana e anonima. Il Ministero, il Governo sono entità lontane. Che qualcun altro, se vuole, lotti pure. Quando verrà, se verrà il peggio, potrò sempre piegarmi come giunco, in attesa che passi la piena.

Alessandro Porcelluzzi

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