Dom. Dic 8th, 2024

Intevista a Giuliana Golinelli in Valentini, (trascrizione integrale) 1 parte: FASCISMO E ANTIFASCISMO VISTO CON GLI OCCHI DI UNA BAMBINA

Il mio nome è Giuliana Golinelli in Valentini, vivo alla Garbatella, Roma, ma le mie radici sono romagnole e toste.

Mi hanno portato a Roma che avevo tre anni, però tutti gli anni mi riportavano in vacanza in Emilia Romagna, un po’ a Lavezzola e un po’ ad Argenta. Attraversavo il ponte con la bicicletta.

Lì c’erano tutti i miei parenti, dalla parte di Argenta c’era la mamma di mia mamma (Maria detta Gagiona) che mi raccontava dei tempi suoi, delle lotte contadine, di quando si erano messe sdraiate davanti ai cavalli … proprio come nella scena del film Novecento. Questo ha fatto mia nonna.

Vedi questa tessera? – Tra le mani, Giuliana, stringe una delle prime tessere del Partito Comunista, anno 1924 – Questa tessera è di mio padre (Clemente Golinelli detto Enrico) ed è rimasta nascosta in un capanno, fatto con le fascine di canna, da allora è rimasta nascosta lì. Durante la guerra è stato l’unico capanno che non è andato distrutto, ed è stata ritrovata insieme ad altri documenti del partito.

Mio padre era fidanzato con mia madre (Luigia Ghini detta Gigina), e mia madre, per questo, viene chiamata alla casa del fascio. Gli dicono che non doveva più frequentare il Golinelli perché era un sovversivo. Mia madre gli rispose:

“A me dispiace tanto ma è il mio fidanzato e io me lo sposo!”

Tosta la mamma …

Per sposarsi, c’era un prete a Lavezzola, una specie di Don Minzoni che gli disse: “Se non vi sposano, venite da me …”.

Una sera verso le ventidue, sono andati in sacrestia e li ha sposati e dopo circa  due anni sono nata io.

Papà andò a Roma a lavorare con altri compagni.

Subito, papà con i compagni, stavano di volta in volta dove venivano ospitati, poi riuscirono ad avere una casa e così, mamma e io, ci siamo trasferite a Roma. Avrò avuto circa tre anni.

Andavo a scuola, ma a casa, mentre giocavo per conto mio, sentivo parlare i compagni, sentivo quello che dicevano.

A scuola, in quinta, non ricordo cosa la maestra stava spiegando ma io sono saltata su dicendo: “No, no è dittatura questa. Il partito comunista è meglio!”

Erano le cose che sentivo dire in casa.

La maestra fece chiamare subito mia madre e le disse:

“Signora, quando avete ospiti, la bambina la faccia giocare da un altra parte … “

Aveva certamente capito.

Finisco la quinta, do l’esame di Stato per fare le medie, lo passo e poi come tutti gli anni, mi portarono dai nonni per le vacanze.

Io parlavo il dialetto romagnolo, e lo parlo ancora, il 30 giugno mi portano su e il 13 luglio bombardano Roma.

Con il primo bombardamento, una bomba, in un palazzo di otto scale, cade proprio alla scala  G, dove abitavamo noi, e così rimaniamo senza casa.

Mia madre che era uscita a fare un po’ di spesa, si trova in strada quando suona l’allarme, scappa per andare al rifugio, cade, non riusciva a tirarsi su … Passa il garzone che lavorava in pizzicheria, la prende dalla schiena,  per il vestito e se la trascina via … Mamma era un fringuellino.

Se la tracina e le gambe si strusciavano per terra e si erano tutte rovinate, il vestito si era rotto, ed era rimasta con solo una scarpa.

Mio papà, che faceva il muratore dall’altra parte di Roma, era salito sull’ultimo piano che  stavano costruendo e vedeva da lì il bombardamento. Quando finisce l’allarme corre a casa, nel quartiere.

Il palazzo era rimasto intero, la bomba era caduta dentro, era rimasta la facciata fuori, perfetta.

Anche la mamma quando è uscita dal rifugio, zoppicando, pensava: “Adesso quando arrivo a casa, almeno mi cambio …”

Le persiane erano ancora accostate, come le aveva lasciate. Arrivata al cancello, dentro al cortile, vede tutti i calcinacci … Ha incominciato a piangere.

Nel frattempo arriva papà e lei disperata: “Non abbiamo più niente, siamo senza casa.” Lui le rispose: “Non piangere. Abbiamo tutto. Tu sei viva, la bambina sta su, lei è al sicuro … Ha un tetto e da mangiare.”

Noi avevamo la tessere per un etto di pane al giorno.

Così loro sono rimasti bloccati giù e io ero bloccata su, per tutto il periodo della Resistenza.

I tedeschi da alleati sono diventati nemici. E hanno fatto di tutto.

Io ero proprio sulla linea gotica.

Ero in casa di mio zio, fratello di mamma (Ghini Primo detto Manazza), insieme a mia nonna (Maria Gagiona), la contadina combattente, poi i due figli maschi di mio zio, e la figlia dell’altra sorella e quindi eravamo due femmine e due maschi.

Mio zio era capo partigiano, e lì, ad Argenta, c’era un “figlio di …” fascista, che quando io passavo di lì, per ingiuriarmi, mi chiamava “la romanina”.

Nei paesi ci si conosceva  tutti. E poi allora che non c’era niente, alla sera si andava a casa di uno o dell’altro portandoci dietro la sedia.

Mi zio mi prendeva in braccio e mi faceva raccontare le barzellette:

“In nome del Papa, il Duce comanda, il Re ubbidisce, la pancia patisce, il Popolo dice: ma quando finisce?”

Le avevo imparate e non le potevo dire … ma se mi prendeva in braccio, le dicevo.

In casa dello zio, arriva poi un comando tedesco e si prende il secondo piano.

La casa era su due piani: sotto, la cucina e una sala, poi c’era la scala che portava al piano sopra dove dormiva nonna, e io con mia cugina; dormivamo una dai piedi e l’altra dalla testa, poi in un’altra camera dormivano i due maschi e poi la camera di zio e zia.

Quando sono venuti i tedeschi hanno voluto la camera. In un primo momento siamo andati a dormire in una costruzione rimediata fuori, per qualche giorno, nella legnaia, nel frattempo quel buon uomo di un fascista, era andato a dire in giro che zio era un partigiano.

Una sera viene un ragazzone alto, di quelli che portavano la camicia nera, appartenente a un battaglione tedesco di quelli cattivi. Dice: “Noi siamo qui di stanza e dobbiamo organizzare una festa, perché vengono altre persone, lei ha qualcosa in contrario?” Chiedeva a mio zio.

“No, per carità, tutto quello che c’è è a vostra disposizione!” Aveva capito che era a rischio.

“Quando noi facciamo la festa, non vogliamo che entri nessuno!”

Fanno questa festa e si ubriacano tutti quanti. Rotto bicchieri, piatti, tutto quanto.

Si ubriaca anche questo comandante. Questo comandante aveva con se una borsa, l’aveva messa sotto la credenza e si capiva che c’era qualcosa d’importante. Al piano sopra c’era il comando tedesco e in questo comando c’era un attendente e un maresciallo, però l’attendente aveva un debole per me perché aveva una figlia che aveva la mia età e lui vedendo me rivedeva lei. Lo diceva sempre che vedendo me gli sembrava di vedere lei.

Mio zio mi diceva: “Fatti insegnare il tedesco … cerca d’imparare qualche cosa.” E io gli chiedevo: “ Blum, insegnami qualche parolina.”

Lui era un austriaco e si era affezionato e aveva intuito qualche cosa …

Finito la festa vanno via tutti quanti ma la borsa rimane sotto la credenza.

Questo attendente, Blum, la trova e dal contenuto, si rende conto di tutto. Chiama mio zio, (io queste cose, della borsa, l’ho saputo dopo).

A mio zio gli dice: “Guarda che siete in pericolo!”

Nel frattempo, nel termine di pochi giorni arriva l’ordine dalla Germania per fare qui una linea di rinforzo, le  case verranno buttate giù, e verrà sgomberato tutto.

I genitori di mio papà, stavano a Lavezzola e i nonni stavano vicino ad un mulino, proprio sul ponte del Reno che divide la Romagna, provincia di Ravenna e Ferrara.

Zio ci radunò e disse a nonna: ”Senti, bisogna che prendi le bambine e le porti a Lavezzola e poi, dividetevi tra i parenti, non state tutti insieme …” I figli li portò in valle con se e li mise su una barca in mezzo alle canne.  Mio zio lavorava lì, quando era giovane giovane  correva in bicicletta ed era diventato campione regionale. Nel ‘27,  divenne responsabile in valle (Valle Santa facente parte delle valli della Bonifica Renana).

Io, mia nonna e mia cugina partiamo così da Argenta. Mia nonna con una carriola con del grano, fagioli e un pugno di farina, io e mia cugina con una pertica, dove avevamo infilato quattro sporte

con dentro i nostri vestiti. Un armadio ambulante … Avevamo undici e dodici anni. Otto chilometri così da fare, da Argenta a Lavezzola.

Costeggiammo il Reno per arrivare al ponte, il ponte stava in alto, sull’argine. Quando fummo ai piedi della salita, arrivarono gli aerei e lo bombardarono. Mia nonna, quando sentì il rumore degli aerei, capì subito e ci buttò nel fosso tutte e due. E lei ci venne sopra per proteggerci.. Finito il bombardamento ci disse: “Andiamo a vedere …”

Salimmo su, cercando di attraversare, ma venivano giù i calcinacci e non era più possibile.

Dall’ altra parte c’era uno zuccherificio, in località San Biagio, e lì viveva una famiglia di contadini. Essendo che mia cugina, anche se pareva più grande perchè molto più  robusta di me, ma di carattere chiuso e non parlava, io invece non mi tiravo mai indietro, mia nonna mi dice:

“ Giuliana, va a vedere se quei contadini ci possono dare una mano …”

Io attraverso la strada, busso e mi apre un tedesco. Cerco di parlare, di dire qualche parola che avevo imparato dall’austriaco … (e magari lo dicevo anche fuori posto) … Comunque questo tedesco mi prende per il braccio per tirarmi dentro, molto probabilmente per vedere se c’era qualcuno che mi capiva, ma mia nonna, che vede a distanza questa scena, con un balzo è venuta di là iniziando a prendersela con questo disgraziato …

Gliene ha dette di ogni, di cotte e di crude… E poi con me: “E te cu sat det?”

“Nonna io gli ho chiesto se ci potevano aiutare …”

Poi siamo tornate indietro e siamo andate nella piazza. In piazza abitava una famiglia che aveva un figlio che stava in valle con mio zio. Ci hanno detto di stare lì e ci hanno acceso il fuoco; c’era già fresco, era piovuto e si era formato tutto il fango dall’altro argine. Con la stufa accesa ci mettemmo a dormire tutte tre con le coperte per terra.

A un certo punto, mia nonna ci dice: “Adesso dormite per bene e appena vi chiamo, vi alzate di corsa e state zitte, non parlate, e usciamo; andiamo di là dal ponte, un ragazzo ci viene a prendere con la barca.”

Il padre di questo ragazzo si era messo d’accordo con mio zio. Il ragazzo ci è venuto a prendere con la barca quando ancora c’era la nebbia e noi eravamo là, ad aspettarlo, con la nostra carriola e l’armadio ambulante, zitte, zitte tra la nebbia e mia cugina che non voleva salire perchè aveva paura della barca.

Nonna ha voluto che prima ci portasse noi, poi la carriola e per ultima lei.

Era una piccola barca. Arrivati di là dal fiume, iniziammo a salire l’argine ma si scivolava sempre giù perché era tutto fango.

Sopra all’argine c’era un binario che portava i vagoncini, quelli con cui trasportavano materiali, tipo quelli delle miniere, perché infondo c’era una fornace. Le traverse però erano tutte coperte dal fango, non si vedeva niente.

La nonna, arrivata per ultima ci dice: “Adesso andiamo piano piano, coraggio, forza …” Dentro al fango fino alle ginocchia, camminavamo un po’ e un po’ ci fermavamo, sempre con le sporte sulle spalle, e lei poveretta piantava la carriola e tornava indietro ad aiutarci. Eravamo a San Biagio e mancavano ancora quattro, cinque, chilometri.

A un certo punto io scivolo, e con la traversa del binario che era di ferro, mi scortico tutta la gamba. Dolorante e con tutto quel fango addosso, mia nonna dice: “E ora come facciamo?”

Ma io mi morsicavo la lingua dal dolore. Il fango mi copriva tutta, anche le ferite.

Mia nonna mirava al mulino, perchè lì c’era l’altra nonna: “Arriviamo lì così staremo tranquille …”

Facciamo tutta quella strada, in quello stato, arriviamo finalmente al mulino. Non vedevamo niente, da lontano non si vedeva niente.

Seguitiamo e arriviamo  all’abitato … C’era rimasta solo una stalla con uno gabbiotto vicino e proprio da lì, salta fuori l’altra nonna, e iniziano a piangere tutti quanti. Insomma ci avevano buttato giù anche quella casa!

Mia nonna mi disse che nella notte aveva sognato che io la chiamavo, che era lì, perché aveva fatto questo sogno e mio nonno continuava a dire: “… L’é na sognadoura … l’é na sognadoura!”

Avevano acceso un camino e messo su un paiolo d’acqua … per fortuna! Potevamo finalmente lavarci perchè eravamo tutte  infangate, l’acqua era bollente e ci siamo rifocillati.

Mia nonna (paterna) con la famiglia, erano ospitati da un negoziante che era amico di  famiglia e mentre io resto lì con loro, l’altra nonna, con mia cugina se ne vanno da altri parenti.

La mamma di mia mamma si chiamava Maria ma non l’hanno mai chiamata Maria, perché a Lavezzola si usavano solo i soprannomi. La chiamavano “la Gagiona”, dal gagg (biondo), e l’altra

nonna che si chiamava Gasperoni di cognome, la chiamavano “la Gasperona”, perché era alta e robusta.

Mio nonno, l’unico che ho conosciuto, lo chiamavano “E merce”, perché era come il treno merci, un uomo che andava tranquillo e lento.

Allora, io resto con nonna Gasparona e il nonno e dormivo con la figlia di chi ci ospitava, e loro in un’altra camera.

A Lavezzola c’era anche la sorella di papà con il marito e anche loro erano partigiani. Avevano la vendita all’ingrosso della frutta, la prendevano dai contadini e l’andavano a vendere a Bologna, poi a Bologna prendevano quello che non si trovava da noi in paese e lo riportavano. Per portare la frutta ci voleva il permesso.

E chi lo va a prendere questo permesso? Chi ci va? …

Mia zia mi fa: “Giuliana ci vai te al comando tedesco per sentire se ci danno il permesso per portare via la frutta? “

Dodici anni, non so se li avevo già fatti.

Dai tedeschi, come impiegata, c’era quella che lavorava alla posta. Quando arrivo le dico: “Mio zio deve portare via la frutta e gli serve il permesso”

“Ma tuo zio dov’é?”

“Sta dai contadini a preparare la frutta.”

Non sapevo cosa dire e me lo sono inventato sul momento.

Allora lei mi dice di entrare per parlare con il comandante.

Vado dentro, gli spiego … e questo mi fa dire due, tre cose, poi mi fa: “CANTA!”

“E cosa devo cantare?”

“ Quello che vuoi. CANTA!”

Io non lo so quello che ho cantato, non mi ricordo neanche il momento in cui ho cantato.

Me la facevo sotto… Pensavo a quello che avevo capito da mio zio, che ci aveva mandato via perché scoperti … In quei momenti me la facevo proprio sotto dalla paura.

Io non lo so cosa ho cantato, ho cancellato, ho annullato il testo e annullata la musica … Non ricordo se ho cantato… Se lui ha insistito io avrò cantato …per avere quel permesso.

Esco con il permesso per trasporto frutta, e sicuramente quella richiesta era un modo semplicemente sadico per mettermi terrore.

Quando arrivo da mia zia le dico: “A m’an fat canter!”

Gli do il permesso e vado via.

Il giorno dopo trovano il camion di mia zia nel fosso. Era riconoscibile bene perché c’era la sua pubblicità: “Zia  Zenilde”.

Lo trovarono con le mele sopra e le armi sotto. Non so come siano andate le cose…

Un’altra zia (Veturia detta Peppina), la moglie del fratello di mamma, che era in valle con lo zio, è arrivata in bicicletta e mi ha portata via.

Dopo un po’ anche  la nonna (Maria) e  l’altra cugina ci raggiungono tutte in valle. In questa valle, allora la strada era bassa, ora è alta, valle Santa, la zona di Campotto dove c’era la fornace.

Lì, i tedeschi, avevano tolto tutti gli argini e si era tutto allagato, si andava solo con le barche, però a volte le barche si rovesciavano e così, avevano fatto un grosso zatterone e si andava solo con quello. Avevamo imparato anche noi bambini.

Le poche volte che veniva lo zio, noi stavamo sulla porta perchè ci diceva di controllare se vedevamo arrivare una macchina con le bombole di gas, in tal caso, dovevamo avvertirlo subito. Ogni tanto capitava.

Una volta ho visto zio che metteva delle carte dietro ad un attaccapanni. Lui non mi ha detto niente e io non ho chiesto niente. Una notte era venuto a casa e c’era una pistola sul comodino, in camera mia.

Lui dormiva insieme alla zia in cucina. Io non sapevo niente, l’ho saputo da nonna … che ce l’aveva sotto la camicia da notte e me l’ha messa sotto al cuscino a me. “Giuliana non muoverti…” E chi si muoveva!

Se arrivavano i tedeschi e lo trovavano con la pistola era finita …

Una notte lo zio ha appena fatto in tempo a squagliarsela di corsa che sono arrivati i tedeschi. Avevano un ferito. Ci hanno fatto alzare tutti quanti in camicia da notte, ci hanno strappato le lenzuola per usarle come bende. Si appropriavano così, sempre, delle abitazioni e delle cose; entravano ed erano i padroni, quello che gli andava bene lo prendevano, non ti chiedevano nessun permesso loro!

 

A cura di Marzia Schenetti

 

Segue la seconda parte alla prossima uscita.

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