Mar. Mar 19th, 2024

Polis

 

N. 06 del 1 DIC – SECCHIONI & TROMBONI

La politica economica del Novecento si basava maggioritariamente su due semplici principi, anche se spesso di complessa applicazione:

 

  1. a) si doveva scegliere quanto e come e tassare le attività produttive;
  2. b) si dovevano reinvestire le risorse così ottenute, creando servizi per la Comunità.

 

Le modalità concrete attraverso cui ciò avveniva determinavano l’orientamento politico: la Sinistra era più propensa a tassare, reinvestendo le risorse a beneficio delle classi svantaggiate, mentre la Destra preferiva tassare lo stretto indispensabile, nella convinzione che la maggiore ricchezza imprenditoriale così ottenuta potesse ricadere anche sugli operai, ed in generale sulla popolazione.

Il sistema “tassa e spendi” finiva anche per vagliare l’onestà dell’esponente politico, giacché una spesa pubblica a “a vantaggio degli amici” (industriali e/o elettorato) contraddistingueva il fenomeno del “clientelismo”, che è poi l’anticamera “bonaria” della corruzione.

Tutto ciò è andato in crisi già alla fine del Novecento, e soprattutto in questo Terzo Millennio, per due motivi fondamentali:

  1. A) la competizione economica globale avvantaggia sempre di più i Paesi che per vari motivi tassano poco (e che conseguentemente spendono di meno a beneficio della Comunità), rendendo più convenienti le merci da essi prodotte, ed anche i servizi erogati. Nel corso degli anni, abbiamo per esempio assistito a un fenomeno precedentemente addirittura impensato: la delocalizzazione dei call center in Paesi d’altra madrelingua (!), ma che risultano più favorevoli agli investimenti, per il minor costo del Personale, ed appunto per la minore tassazione (fenomeni peraltro reciprocamente collegati),
  2. B) La platea dei ceti svantaggiati si è estesa, un po’ in tutta Europa, a causa dell’immigrazione, per cui si assiste a tutta una serie di interventi di pseudo-politica economica “a pioggia”, al fine di evitare che la proliferazione dell’emarginazione intacchi ulteriormente la sicurezza quotidiana (e quindi anche il consenso ai politici, e più in generale allo Stato); latitano invece gli interventi “strutturali”, a favore della casa, della natalità e della genitorialità, gli investimenti per la ricerca tecnologica, le infrastrutture di comunicazione, l’occupazione lavorativa, la sanità, le Forze dell’Ordine, l’istruzione.
  3. C) Resiste tuttavia il fenomeno del “clientelismo” e della corruzione, ma, dopo l’inchiesta “Mani Pulite”, che fu all’epoca altamente traumatica per il sistema politico, non più principalmente sotto forma di regalie “evidenti” fra corruttori e corrotti, bensì sotto forma di “favori”, variamente motivati e variamente ripartiti: Fondazioni, Giornali, Associazioni, eccetera.

I cambiamenti qui sommariamente descritti (A, B e C) hanno inciso profondamente sulle funzioni della politica, e sulla figura dei politici. Una delle conseguenze più evidenti è che il politico non può più accreditarsi come persona del “fare” (onesto e competente), ma, semmai, come persona del “dire”: dovrà avere la posizione “giusta” sui vari temi civili, arrivando a proporre, se possibile, delle iniziative che facciano progredire la Società, ma “a costo zero”, o quasi. Tale mutazione, che potrebbe comunque avere anche un senso, all’interno di società complessivamente “benestanti” (ma non in periodi di crisi, o all’immediata fuoriuscita dalla crisi stessa), prevede come corollari una serie di nuovi eventi e nuovi comportamenti (“nuovi” rispetto alla politica del Novecento):

  1. A) La TV diventa più importante delle sedi istituzionali: oggi, chi “faccia”, e “faccia bene”, non sarebbe neanche rieletto, perché la sua attività avverrebbe nel silenzio dell’incognito.

 

  1. B) Durante le trasmissioni TV, il politico ospite non dovrà mai contraddire aspettative, opinioni, o richieste delle piazza mediatica, né potrà asserire che una determinata azione politica sia impossibile, o troppo costosa (ed implicherebbe pertanto “tagli” compensativi in altri settori della spesa pubblica): si verrebbe subito sbranati. Meglio indulgere a “vaghe promesse”, la cui realizzazione nessuno controllerà veramente sul serio, per incolpare eventualmente il “presenzialista” televisivo.

 

  1. C) Argomentando, non ci si limiterà a far emergere e condividere una posizione “giusta”, ma ci si costruirà su un’arringa, una retorica, un’ideologia; l’ideale è comunque costituito dall’infangare il più possibile l’avversario, non per qualcosa che abbia fatto, o si accinga a fare (tanto nessuno fa nulla), ma perché non è stato in grado di comunicare ai Media e al Pubblico una posizione “ben costruita” (che è poi la stessa per tutti gli appartenenti allo stesso Partito), rendendosi magari addirittura colpevole di qualche gaffe, o di qualche sfondone.

Queste tematiche esondano dalla politica istituzionale, e toccano qualsiasi aspetto del potere (anche perché, come ho scritto in altri interventi, grazie alla spettacolarizzazione degli eventi e delle opinioni, tutto è diventato “intrattenimento politico”, e quindi “politica” per i palati grossolani): il povero Carlo Tavecchio, Presidente dimissionario della Federazione Italiana Giuoco Calcio, prima di essere definitivamente sfiduciato a causa dei risultati della Nazionale, non era stato criticato prevalentemente per il curriculum (che molti avranno invece trovato valido e congruente al ruolo), o per le sue decisioni pratiche, bensì per una comunicazione mediatica così goffa, da sembrare “razzistica”, ben oltre le intenzioni dell’esternatore, diventando conseguentemente”virale”:

http://www.corriere.it/sport/14_luglio_26/gaffe-tavecchio-web-contro-lui-candidato-figc-ora-il-banana-9a10610c-14c5-11e4-9885-7f95b7ef9983.shtml?refresh_ce-cp

L’ossessione per la posizione “giusta” (e per la condanna della posizione “sbagliata”) accomuna la Politica, il Sindacato, lo Sport, le Associazioni dei Consumatori, e, last but not least, le Dirigenze di tutte quelle Organizzazioni che stanno proliferando “per il nostro bene”, pretendendo di dare un contributo fondamentale alla risoluzione dei problemi della contemporaneità: migrazioni, violenza alle donne, carceri, disagi psicologici degli individui e delle famiglie, eccetera.

(Oserei affermare che gli scambi economici, ed anche di personale dirigente, fra Politica ed Organizzazioni “benemerite” rappresenti la mutazione “più convincente” del “clientelismo” novecentesco: tendenzialmente inattaccabili, perché basati sul favore “evidente”, e soprattutto sulle “buone intenzioni” e sulla retorica del “politicamente corretto” … del resto, chi potrebbe sensatamente attaccare persone e progetti che si occupano di temi così importanti per l’ordinato sviluppo della società, e che educano così disinteressatamente il nostro latitante senso civico? .)

Insomma, grazie all’avvento dei “retori” del Terzo Millennio, stiamo coltivando un ceto politico e dirigenziale prescelto sulla base di due cliché che, in tempi passati (ma neanche tanto remoti), ci erano invece sembrati patetici e odiosi: il “secchione” e il “trombone”.

Prendiamo, ad esempio di questo “dilagare del dire” (e dell’ostinato presenzialismo di “secchioni” e “tromboni”), il dibattito attuale sulle molestie, gli stupri e i ricatti sessuali nell’ambiente cinematografico, negli USA, in Italia, ed altrove. I Media, che ovviamente sanno benissimo come tener desta l’attenzione del pubblico, sono sempre attenti a presidiare inesauribilmente opinioni reciprocamente antitetiche: insomma, che una decina di attrici punti il dito contro Fausto Brizzi, raccontando episodi assai similari, è indice comunque veritiero di comportamenti inaccettabili, e che dovrebbero inoltre essere ulteriormente indagati. nell’ipotesi di reato … ma è pur vero che i processi si fanno nelle Aule di Giustizia, e non in TV, altrimenti si rischia di colpire le persone oltre le responsabilità effettive e accertate, e magari rovinare definitivamente la vita a dei malcapitati innocenti. Similmente: è vero che i comportamenti in questione sono odiosi, ed una parte di essi presumibilmente illegali … ma che dire delle ragazze che andavano a fare provini a casa del regista, e che parlano solamente oggi, in grande ritardo, forse per vendicarsi, per risarcirsi rispetto alla popolarità non ottenuta, o addirittura per ottenerla finalmente non per meriti artistica, ma perché “denunciano”?

Bastano due opposizioni logiche: “giustizialisti” contro “garantisti”; e “a fianco delle donne, senza se, e senza ma”, oppure “con riserva” … ed il gioco è fatto. Se poi arriva “il solito secchione” a ricordarci che tali comportamenti e tali illegalità sono reperibili in qualsiasi altro ambiente professionale, ma che tuttavia degli uffici e delle fabbriche non si interessa nessuno, i Media possono “buttarla in caciara” (come diciamo a Roma), ANCHE PER SETTIMANE.

Insomma, nulla di veramente intelligente, o che vada oltre il senso comune: Eh, signora mia, non c’è più religione … i giovani non sono più quelli di una volta … di questo passo, dove andremo a finire?, ma tanta passerella e gloria per tutti, politici in primis. Il paradosso dei Media è che un eventuale dibattito sul rapporto esistente fra “presenzialismo mediatico” e crescente disaffezione alla partecipazione e al voto, avrebbe l’effetto largamente prevedibile di dare la parola, ancora una volta, ad ulteriori Secchioni & Tromboni!

 

Gianfranco Domizi

 

N. 05 del 15 NOV – IL RITORNO DI KEYSER SöZE

«Non esiste documento di civiltà che non sia contemporaneamente documento di barbarie» (Walter Benjamin, “Angelus Novus”).

Pochi attori sono riusciti ad interpretare le inquietudini dell’uomo comune moderno, come Kevin Spacey … già a partire dagli anni Novanta (“Americani”, “L.A. Confidential”, “Il negoziatore”, “American Beauty”), arrivando ai giorni nostri.

Per tutti questi film è stato pluripremiato, e, collateralmente alla carriera d’attore, ha intrapreso anche quella di sceneggiatore, di regista e soprattutto di produttore.

Ma per i cinefili, Kevin Spacey rimarrà soprattutto Keyser Söze, personaggio de “I soliti sospetti” (1995), ed emblema di efferatezza e crudeltà infinita.

La pellicola è nota soprattutto per il colpo di scena finale, in cui si scopre che l’invalido Roger “Verbal” Kint, il meno sospettabile fra i sospetti, a causa della sua evidentissima mediocrità, è proprio Keyser Söze, sotto mentite spoglie.

E se delle inquietudini dell’uomo comune moderno, sopra evocate, fa parte l’essere contemporaneamente una persona banale e un gran criminale (cosa che tutti siamo potenzialmente, nell’oscuro dei nostri meandri e delle nostre pulsioni), Spacey, nell’essere “Verbal”, e, contemporaneamente, Söze, è da considerarsi un attore veramente rappresentativo …

il più rappresentativo di questi ultimi anni, e, secondo me, il degnissimo erede di Jack Nicholson.

Per quanto riguarda la sua vita pubblica e privata fuori dal mondo della celluloide, l’ambivalenza viene ulteriormente confermata.

Da una parte, Kevin Spacey è grande sostenitore del Partito Democratico americano, ed amico personale di Bill Clinton; dall’altra, è diventato protagonista dell’ennesimo scandalo sessuale dei giorni nostri.

La sua vicenda (nonché quella di altri, e soprattutto di altre) è troppo nota e troppo attuale, per dover essere qui riassunta. Basterà dire l’essenziale: diversamente dagli altri personaggi coinvolti, stiamo parlando di omosessualità (l’attore, nell’occasione, ha fatto “coming out”).

Stiamo inoltre parlando di rapporti tentati con un minore, la qual cosa ha sollecitato raffronti, in parte possibili, in parte avventati, con la figura e la vicenda pubblica e privata di Pier Paolo Pasolini:

http://m.dagospia.com/paolo-guzzanti-pensate-se-il-processo-mediatico-a-spacey-l-avessero-fatto-a-pasolini-160201

Ma è questa VERAMENTE la notizia? Molestie di cui presumibilmente si mormorava da un pezzo … processi che porteranno presumibilmente quasi sempre a un nulla di fatto (ad eccezione della posizione di Weinstein), quantomeno per mancanza di prove … estensione del problema dal mondo dell’eterosessualità a quello dell’omosessualità?

La notizia VERA sarebbe l’avvento di una seria riflessione sociale sugli stupri, sulle molestie e sui comportamenti che avvengono nella quotidianità della gente normale!

Per quanto riguarda Kevin Spacey, appare inoltre scontata la sua sospensione dagli impegni in corso (il mondo del cinema e dei media, impegnato fino a ieri a sciacquarsi i genitali, ha evidentemente deciso di sciacquarsi anche la faccia), ed anche la sua auto-sospensione, “per farsi curare”. Meno scontato, secondo me, è il fatto che gli sia stato revocato un premio importante, raggiunto per meriti artistici:

http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2017/10/31/kevin-spacey-resta-senza-house-of-cards-e-senza-emmy-tolto-il-premio_3d6856ef-025d-4eef-9554-a1a67eee8fde.html

O meglio, può apparire comunque scontato, considerando la “pulizia” a gran voce richiesta, ma sollecita contemporaneamente una riflessione ulteriore: la notizia importante, insomma, rischia di essere una delle più antiche e dibattute, quella dei rapporti fra estetica ed etica.

Per formularla esplicitamente, ma in modo dubitativo (come è giocoforza per i grandi problemi, che sono tali, “grandi”, proprio perché destinati a rimanere irrisolti): può la voce dell’etica (e nel caso specifico la “voce etica” dell’opinione pubblica, che chiede ragione di determinati comportamenti, e potrebbe inoltre dire la sua, rispetto a eventuali condanne giudiziarie), mettere a tacere i meriti raggiunti artisticamente (e quindi sanciti “esteticamente” dall’opinione pubblica stessa, oltre che dagli addetti ai lavori)?

Dal sito della Casa Editrice Adelphi, a commento di due discorsi di Josif Brodskij, raccolti nel volume “Dall’esilio” (1988): Quando, dal podio di Stoccolma, si è udito che «l’estetica è la madre dell’etica» – e proprio da uno scrittore di impavida fermezza etica –, tutti hanno avvertito una scossa salutare. La letteratura non serve a salvare il mondo. Ma è il più formidabile «acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo».

(Ci si riferisce al Nobel per la Letteratura, conferito nel 1987 al poeta russo, e alla sua “prolusione”, che è, per l’appunto, uno dei due discorsi riportati nel libro. Ovviamente, quello che si dice della letteratura vale anche per le altre arti, ed in buona misura per i prodotti mediatici imparentati con l’arte, come quelli filmici e televisivi.)

Nel caso specifico, Kevin Spacey, con alcune interpretazioni magistrali e pluripremate, ha contribuito, A PRESCINDERE DALLA SUA PERSONA NEL QUOTIDIANO, ad “accelerare” la conoscenza e la comprensione dell’universo (estetica), generando pertanto (“madre”) un mondo che magari non sarà “salvato”, ma potrà essere, nel tempo, più colto e consapevole, e pertanto “migliore” (etica).

Ha senso, a questo punto, privarlo di un riconoscimento che è, al contempo, un segnale per il pubblico, in quanto convoglia l’attenzione generale verso un prodotto artistico e mediatico “meritevole”? Si colpisce l’artista, o si finisce anche per colpire in questo modo il processo di acculturazione e comprensione generale?

A mio parere, un artista mai e poi mai dovrebbe essere giudicato per la sua vita. Se ciò avvenisse, dovremmo invalidare una grandissima quantità di opere prodotte nella storia della cultura e della civiltà, che ci lasciano comunque un insegnamento, più o meno importante.

Ma siccome la realtà ha quasi sempre due facce, altrettanto plausibilmente potremmo chiederci:

Come mai un artista (che, per dirla alla Brodskij, “genera etica” mediante l’ “estetica”), nel suo processo di sviluppo personale non è stato “condizionato positivamente” dalla ricerca e dagli studi, nel dare una migliore dimensione “estetica” (e quindi indirettamente “etica”) alla sua stessa vita?

Il nostro articolo non può che terminare lasciando aperte entrambe le questioni in corsivo …

… che diventano stimolanti proprio perché complementari: l’estetica rimane madre dell’etica, a prescindere dalla vita pubblica e privata degli artisti; ma fa comunque riflettere ulteriormente, quando ci sia dato di sospettare uno sviluppo estetico ed etico mancato o carente, proprio in coloro che hanno avuto un grande privilegio: quello di svolgere e incarnare, nell’ambito della società, la funzione e il ruolo dell’artista.

 

Gianfranco Domizi

 

N° 04 del 01 NOV – “Caro Matteo … ”

No… non si tratta dell’ennesima lettera a uno dei due Matteo nazionali: Renzi e Salvini.

Con questo articolo, scrivo a Matteo Viviani, inviato de “Le Iene”, per sottolineare un paio di aspetti intrinsecamente ridicoli del servizio televisivo dedicato a un padre che non vede la figlia da 8 anni, perché portata in Croazia dall’ex-compagna.  L’intento è ambizioso, e spero di non soccombere all’Hybris evocata da Eschilo ne “I Persiani” (Serse frusta tracotantemente il mare “nemico”):

 

http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/letteratura-greca/L-et–classica/Eschilo/Le-tragedie.html

Desidero infatti far emergere un elemento grossolanamente ridicolo, all’interno del più noto programma di “ridicolizzatori”.

La vicenda si basa su un fatto certo, e uno opinabile: quello certo è costituito dalle sentenze di entrambi i Tribunali (italiano e croato), tutte favorevoli al padre; quello opinabile dalle dichiarazioni della madre sul carattere violento dell’ex-compagno.

Qui si aprirebbe tutta una serie di considerazioni sulla giustizia formale, su quella sostanziale (anche in evidenza del fatto che un ex sia una “cattiva persona”, ci si può fare giustizia da soli?), sui rapporti uomo-donna in generale, su tali rapporti in fase di separazione e affidamento / collocamento dei figli, eccetera … considerazioni che non desidero fare, perché l’esperienza mi ha insegnato (sono un “padre separato” anch’io) che si tratta di argomenti in cui ognuno vede solamente ciò che vuole vedere, e che le opinioni avverse vengono recepite con fastidio. Un po’ come nella politica, l’ “appartenenza” finisce per “fare giustizia” delle opinioni avverse, e magari anche dei fatti!

I “padri separati” (dai figli) costituiscono comunque un grossolano “rimosso” della Società. E qualunque colpa, o responsabilità, venga loro addossata come “gruppo sociale”, non dovrebbe peraltro esentarci da una solidarietà fattiva verso coloro che sono vittime evidenti di ritorsioni post-coniugali, di avvocati e psicologi affaristi, di tribunali inefficienti e approssimativi. Anche se si trattasse di un uomo soltanto! … perché, a mio parere, non può esistere progresso quando si proclamano “vere vittime” le donne, o gli/le omosessuali, o coloro che hanno subito reati, o i carcerati, i migranti, i disoccupati, i malati, gli invalidi, i morti sul lavoro, gli abitanti delle periferie, ma scapito degli altri, “contabilizzando” addirittura i danni all’interno di ogni schieramento, per rendere retoricamente vincente la propria tesi. La tanto evocata “inclusione” dovrebbe consistere proprio nel farsi carico dei pochi, e al limite dei singoli, senza sminuire e disconoscere le sofferenze e i disagi. (Ho dedicato, nel terzo numero, rubrica “Tracce”, un articolo alla vicenda di Dante Corneli: comunista italiano, prigioniero di Stalin e di Kruscev, per il quale il PCI non fece mai nulla, ed anzi ne “silenziò” la testimonianza al momento del ritorno in Italia, nel 1970, a settant’anni!, probabilmente perché il suo racconto avrebbe sollevato il tema delle responsabilità di Togliatti e dei suoi sodali nei confronti dei progionieri italiani in Russia, e avrebbe tolto un po’ di vigore all’ “irresistibile ascesa” del Partito … ma tutto ciò costituisce, a mio parere, un esempio evidente di come i comunisti NON dovrebbero mai comportarsi.)

Oggi il tema dell’inclusione sta sostituendo quello dell’emancipazione sociale, ed è abbastanza logico: gli “emancipandi” li trovavi già disposti in grandi gruppi all’interno della fabbrica fordista, mentre gli “includendi” li devi andare a prendere, a volte “uno per uno”, nei gangli della Società.

Altrimenti sono chiacchiere.

Ma a proposito di chiacchiere, qual è l’aspetto interessante dell’intervista del buon Matteo Viviani? Il fatto di confessare, durante l’intervista stessa, il suo progressivo cambiamento di parere: il padre della bambina non sarebbe una “vera vittima”, perché, al netto di 8 anni di battaglie legali irrisolventi e di 8 anni di sofferenze personali (ma questo lo dico io, non il buon Matteo), non avrebbe fatto nulla per rivedere la bambina. Ad esempio, non è andato in Croazia e non ha imparato il Croato!

Matteo … Matteo …

Esistono ex-mogli ed ex-compagne che letteralmente inseguono padri “distratti”, affinché si curino dei figli, ma non sembra di questo genere il caso da te (da voi) descritto: è noto a tutti (e quindi dovrebbe esserlo anche ai giornalisti) che quando un figlio viene sottratto per non farlo vedere al padre, ogni volta che il padre arriverà sotto casa, il bambino sarà “misteriosamente” malato. Dopodiché il povero padre potrà tornarsene a casa con le pive nel sacco, avendo perso tempo e denaro, avendo trascurato il lavoro (se ce l’ha), e soprattutto con uno stato d’animo che sicuramente non gli permetterà di ricostruire relazioni durature e serene con altre donne.

Allora, Matteo, facciamo un gioco … Supponiamo che il tuo datore di lavoro (Mediaset, o le aziende che forniscono “prodotti” alle reti Mediaset) apra una sede in barbagia, o presso un paese di maggioranza linguistica albanese. in Calabria e in Sicilia. Il tuo onorario è lì, ma devi trovare l’omino che ti dia il vile denaro. E devi strenuamente confidare di trovarlo, altrimenti dovrai ripassare il mese prossimo, avendo comunque perso l’onorario del mese precedente. Soprattutto, devi essere in grado di dialogare con lui in barbaricino (o albanese). Altrimenti, “non ti riconosce” e non paga. Dai!, che con un po’ di buona volontà e di serenità (non vorrai dirmi che dopo 8 anni d’onorari persi, perderesti anche il tuo proverbiale buon umore … ), le lingue si imparano!

Negli stessi giorni, a causa di un fatto di cronaca: il cabarettista Marco Della Noce, noto soprattutto per le sue presenze a Zelig, che finisce a dormire in auto, in conseguenza di una separazione coniugale, anche il Massimone fazio-nazionale, sì, proprio lui, l’ineffabile Gramellini si ritrova a cimentarsi, forse malvolentieri, col tema dei “padri separati”, argomentando finemente che “per ogni padre che fa il suo dovere ce ne sono almeno due che non pagano gli alimenti”.

Il Massimone, da buon giornalista, si sarà corredato di statistiche inoppugnabili, per fare una simile affermazione. O avrà delle statistiche personali. Ma i “padri separati” segnano un punto a favore: il giornalista più retorico e “buonista” dell’intero palinsesto non trova il modo, per una volta, di ammannirci il suo scontatissimo pensiero, e si fa sopraffare anche lui dall’irritazione e dal qualunquismo. Cattivissimi noi!

 

Gianfranco Domizi

 

 

N° 03 del 15 OTT – “Incoerente sarà lei!”

Il tema della “coerenza” e dell’ “incoerenza” può riguardare ogni genere di opinione, ed anche ogni genere di comportamenti e abitudini: come definire, ad esempio, chi ingurgita torti e pasticcini, ma poi, “pentendosi”, metta il Dietor nel caffè, dando addirittura evidenza alla “sanità” di tale gesto ?!?

D’altra parte, c’è da dire che il nostro goloso “incoerente” ben difficilmente “se ne vanterà”, e che ben difficilmente i suoi amici potranno “condannarlo” per l’incoerenza evidente dei suoi comportamenti … non si andrà oltre i limiti di una bonaria presa in giro.

E’ principalmente quando l’ “incoerenza” si sposta sul piano dell’opinione “politica”, che si suscitano reazioni “forti” da parte dell’interessato (del presunto “incoerente”), e, soprattutto, da parte di chi ne rilevi le incoerenze (reali o presunte).

Ma l’interessato presumibilmente argomenterà di non essere affatto incoerente: essendo cambiati i fatti, ha conseguentemente cambiato punto di vista e idea. (Ne possiamo dedurre che il “cambiare idea” è l’incoerenza vista da se stessi! .) I “rilevatori di incoerenza” invece insisteranno sull’ “incoerenza”, arrivando semmai, in un crescendo di accuse, all’epiteto infamante: “voltagabbana”.

Da Wikipedia:

Il Voltagabbana è un romanzo autobiografico dello scrittore italiano Davide Lajolo pubblicato a Milano dalla casa editrice Il Saggiatore nel 1963. L’autore racconta la sua vita e attraverso essa spiega perché ha abiurato al fascismo per passare alla militanza partigiana”.

In effetti, quando parliamo di “voltagabbana”, intendiamo dei CAMBIAMENTI RADICALI d’opinione politica: paradigmaticamente, da fascista ad antifascista, da comunista ad anticomunista, da fascista a comunista, da comunista a fascista. Non se ne escludono altri tipi, ma questi sono i più discussi, ed anche i più individualmente “sofferti”, anche perché gneralmente i grandi politici, intellettuali, giornalisti non cambiano idea al primo soffio di vento.

Alcuni casi sono stati resi noti dai diretti interessati, altri sono emersi successivamente, come lo “scandaloso” passato repubblichino (Repubblica di Salò, quindi adesione al fascismo) del Premio Nobel Dario Fo, notoriamente impegnato a Sinistra per il resto della sua vita.

Io sono convinto che il “cambiare idea”, quando non sia generato da interessi economici o comunque personali, sia un fenomeno comunque vitale … specialmente in una Società come la nostra, in cui la “fedeltà a se stessi” prende spessissimo il posto della ricognizione effettiva dei fatti realmente intercorsi.

(E’ ben noto ai sociologi come l’opinione politica si formi in età adolescenziale, o giovanile. Questo significa che PER TUTTO IL RESTO DELLA VITA si lotterà disperatamente contro i fatti nuovi, pur di non cambiare idea, rimanendo fedeli a se stessi: ho potuto vedere coi miei occhi, facendo il formatore aziendale, discussi dirigenti di discusse multinazionali, col poster di Che Guevara in evidenza dietro la scrivania! .)

Pertanto guardo con interesse alle autobiografie di coloro che hanno “cambiato idea”, senza darne giudizi moralistici o moraleggianti: cerco piuttosto di capire il “perché”.  E leggendo le loro storie, vi ritrovo l’intera gamma dei possibili comportamenti “incoerenti”, dal semplice “cambiare idea” (ma conservando degli elementi di continuità), alla discontinuità radicale con il proprio passato, per arrivare finalmente ai “voltagabbana”. Senza tediare il lettore con sunti e link, troverà anch’egli facilmente in rete (Google) le biografie dei citati (Lajolo e Dario Fo) nonché quelle, per esempio, di Curzio Malaparte, Piero Vivarelli, Dante Corneli, Guido Picelli, Maurizio Liverani, Lucio Colletti, Giuliano Ferrara, Ida Magli, Oriana Fallaci, Giampaolo Pansa, Armando Plebe, e quelle infine di tanti “minori”, fra cui Domenico (Mimmo) Pinto, Gennaro Migliore e Roberto Maroni (sì, proprio lui!).

Notevolissima la vicenda personale di Armando Plebe: marxista, socialdemocratico, neofascista, indipendente di destra, poi nuovamente vicino al marxismo; eterosessuale, ma omosessuale sporadico e “curioso” per sua stessa ammissione, ed artefice e vittima, proprio perciò, di uno “scandaletto” sessuale, a cui, oltre 40 anni fa, venne dato un certo rilievo:

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/09/12/gli-80-anni-di-plebe-il-filosofo.html

Armando Plebe è anche uno dei pochissimi esponenti della politica e della cultura che si sia visto negare la tessera del Partito Radicale (notoriamente generoso nell’affiliazione di personaggi anche decisamente “improbabili”, come Toni Negri e Ilona Staller).

Considerando i ripetuti cambiamenti di fronte, Armando Plebe potrebbe sembrare un personaggio politico e culturale futilmente bizzarro. In realtà, i suoi libri andrebbero letti con attenzione, perché ogni volta che aderiva a un’opinione “nuova”, la “sostanziava” di riflessioni filosoficamente profonde, o comunque interessanti.

Grande materia di riflessione sulla coerenza e sull’incoerenza politica rimane l’insurrezione ungherese “antisovietica” del 1956.

(Per i più giovani: dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Ungheria era entrata nell’oppressiva orbita economico-politica dell’Unione Sovietica staliniana; peraltro, Stalin era morto nel 1953, e dal successore, Chruscev, ci si attendeva una “destalinizzazione” veloce e radicale, e pertanto una maggiore tolleranza verso le specificità e le richieste dei vari paesi “orbitanti” attorno all’Unione Sovietica. Non fu così … e non fu così soprattutto nel 1956: l’insurrezione ungherese fu repressa nel sangue.)

Il carattere dell’insurrezione era evidentemente “antisovietico” (presa di distanza dall’URSS e dai dirigenti ungheresi allineati sulle posizioni dell’URSS). Ma era aggiuntivamente “anticomunista”?, “controrivoluzionario”?, “nazionalista”?, “filo-imperialista”?. E per quanto riguarda i fatti di casa nostra, un comunista italiano si sarebbe rivelato storicamente “coerente”, se avesse comunque sostenuto l’Unione Sovietica, paese-guida, seppure con moltissimi limiti e contraddizioni, del Comunismo internazionale?

O sarebbe stato più coerente rimanere magari “marxista” e/o “di Sinistra”, però rompendo radicalmente con l’URSS (e con il Partito Comunista Italiano, in quanto incapace di emanciparsi dalla “guida” sovietica)? O ancora: sarebbe stato invece più “coerente” prendere atto che gli ideali di libertà propri del Comunismo si erano tramutati in oppressione, e, proprio seguendo quegli ideali, “uscire dal Comunismo” verso posizioni politiche liberali e riformiste?

All’epoca, sia coloro che rimasero con l’URSS ed il Partito Comunista Italiano, sia quelli che uscirono “rimanendo a Sinistra”, sia chi approdò a posizioni liberali e riformistiche, pretesero di essere rimasti “coerenti”!

Ma ciò, oltre ad essere una pretesa umana comprensibile, è anche logico: cambia il riferimento della coerenza … i primi rimasero fedeli all’organizzazione politica, i secondi all’ideale di emancipazione sociale, i terzi al concetto di libertà come bene supremo.

L’interpretazione di quegli anni e di quei fatti rimane aperta, anche se col tempo i sostenitori della prima ipotesi (rimanere comunque fedeli allo Stato-guida e al Partito-guida) hanno generalmente perduto le loro motivazioni, a cominciare dal nostro ex-Presidente Giorgio Napolitano, gran sostenitore, all’epoca, dell’intervento sovietico in Ungheria:

“A 50 anni di distanza Giorgio Napolitano, nella sua autobiografia politica Dal PCI al socialismo europeo, parlò del suo “grave tormento autocritico” riguardo a quella posizione, nata dalla concezione del ruolo del Partito comunista come «inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall’URSS», contrapposto al fronte “imperialista”. Il 26 settembre 2006 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita ufficiale in Ungheria, rese omaggio al monumento ai caduti della rivoluzione e alla tomba di Imre Nagy”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_ungherese_del_1956

Meglio tardi che mai.

Considerando infine che tutti, all’epoca, si convinsero di essere rimasti “coerenti” e fedeli ai propri principi, da questa ed altre vicende possiamo trarre, giocosamente ma non troppo, la seguente conclusione: INCOERENTI SONO SEMPRE GLI ALTRI!

 

Gianfranco Domizi

 

 

N° 02 del 01 OTT – “Fiabe per adulti”

Continuiamo il dialogo impostato nel Numero Zero sul tema dell’ “ideologia” e della “comunicazione politica”.

Sulle orme di Marx, avevamo interpretato la prima delle due non come semplice “insieme” o “sistema” di idee, ma come “falsa coscienza”, che è resa tale (“falsa”) per il fatto che le nostre stesse interpretazioni sono parziali, in quanto irrimediabilmente orientate dall’ “essere sociale”: un “borghese”, insomma, pur osservando gli stessi eventi di un “proletario”, li interpreta diversamente, perché “deviato” dalla sua condizione.

 

Il fenomeno vale anche a parti invertite, anche se, secondo Marx, il proletariato ha comunque una visione più obiettiva, in quanto più vicina ai meccanismi della produzione (fabbrica) e della riproduzione della società (economia, tecnologia, organizzazione, Stato).

Ed un “politico” (o chiunque si occupi di “comunicazione politica”)? Qui entriamo nel regno della manipolazione quotidiana, ma attenzione!, il problema (ed anche il fascino) dell’ “ideologia” è che chi la promuove ne è egli stesso vittima, ed anzi risulterà più credibile ad elettori e militanti se, invece di impegnarsi in impervi tentativi di costruzione del falso, crederà egli stesso nel falso, o nel parzialmente falso.

(“Il tutto è falso, il falso è tutto”, chiosava Giorgio Gaber: https://www.youtube.com/watch?v=p40cQoKbRL4 .)

Nel Numero Zero proponevamo inoltre la seguente “matrice” della “comunicazione politica”:

  1. a) da dirigenti “scaltri” ad elettori e militanti “scaltri”; b) da dirigenti “scaltri” ad elettori e militanti “ingenui”; c) da dirigenti “ingenui” ad elettori e militanti “scaltri”; d) da dirigenti “ingenui” ad elettori e militanti “ingenui” …

… ma nel Numero Uno, dedicato all’analisi di a), concludevamo con un “sospetto” nei confronti degli elettori e militanti “scaltri”, che “si contentano” di nutrirsi di ideologia, anche perché convinti di far parte del grande consesso della politica, ma non si accorgono che sono solo slogan e belle parole, quando dovrebbero invece aspirare, come tutti, alla risoluzione di problemi, che magari si ritrovano davanti l’uscio di casa.

Insomma, gli elettori e militanti “scaltri” divulgano le idologie e le comunicazioni dei dirigenti, sentendosi addirittura realizzati per ciò, ma d’altra parte finiscono per ignorare i problemi che avvelenano il quotidiano, e transigono dall’ESIGERE, come invece tutti dovremmo, una soluzione.

E sono disposti a “negare l’evidenza” (tema che si incrocia con quello trattato, in questo numero, nella rubrica “La rivoluzione della specie”), pur di spalleggiare i loro dirigenti.

Concludevo, nel Numero Uno, chiedendomi se questi elettori e militanti siano poi così “scaltri” come credono.

Così terminava l’analisi del tipo a) – vedi sopra, la “matrice” della “comunicazione politica” –

Spostandoci su b) e d), c’è innanzitutto da rilevare che la distinzione fra i due tipi è puramente teorica: se è vero che “l’ideologo” è egli stesso vittima delle “false” o “parziali” credenze che divulga (divulga ciò che riesce a vedere, e HA BISOGNO di credere che le cose corrispondano a come le vede ed interpreta), non avremo dirigenti “scaltri” o “ingenui”, ma più plausibilmente avremo “scaltri” e (contemporaneamente) “ingenui”, secondo varie possibili graduazioni. I due “tipi”, insomma, convergono verso un tipo intermedio.

La differenza, rispetto al caso a), è che il dirigente “scaltro e ingenuo” non si rivolge più all’elettore e militante che si reputa “scaltro”, “titillandolo” nel comune sentimento di appartenenza al grande consesso della politica. Nel momento in cui si rivolge a elettori e militanti “ingenui”, dovrà dar luogo a tutto il conosciutissimo e noioso armamentario mediatico (televisione e social) della manipolazione, della polemica e dello screditamento degli avversari.

Ogni volta che ci chiediamo “con che faccia” un esponente politico dica le cose che dice, è perché riconosciamo uno stupidotto che si crede furbo (ovvero: un individuo in parte scaltro e in parte ingenuo, ma comunque sufficientemente ingenuo da essere scoperto, pur ritenendo di non esserlo), nel momento in cui si sbraccia per far credere l’incredibile.

Se siamo VERAMENTE bravi nel riconoscere quel “servo astuto e sciocco”, siamo slittiamo verso una dinamica del tipo c): la “comunicazione politica” che va da dirigenti “ingenui” ad elettori e militanti “scaltri”.

Tuttavia, anche questi ultimi sono presumibilmente invasi dall’ideologia!, perché se fossero veramente “scaltri”, non sarebbero “militanti”, e forse neanche “elettori”.

Peraltro, non sarei neanche sicuro che coloro che “si salvano” dall’ideologia, per disillusione o per pensiero compiuto, rifiutando scheda elettorale e militanza, siano essi stessi sufficientemente liberi dall’ideologia, e dagli effetti manipolatori e distorsivi della comunicazione politica.

Il fatto è che l’ “ideologia” permea tutto il tessuto sociale, ed è il fenomeno più rilevante della “società virtuale”.

 Aveva torto, pertanto, Marx a confinarla in un territorio “sovrastrutturale”, ma aveva ragione a perorare una “critica dell’ideologia”, che sappia contrastarla.

Una “critica dell’ideologia” è il passaggio intermedio che ci toccherebbe, per arrivare a un pensiero libero, o comunque più libero, non condizionato da schemi, appartenenze, vantaggi, e neanche dal DISPERATO BISOGNO DI CREDERE IN QUALCOSA.

Viene da chiedersi:

E’ facile?, difficile?, possibile?, impossibile?, … .

Da Wikipedia:

I vestiti nuovi dell’imperatore (o Gli abiti nuovi dell’imperatore) è una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen (…). La fiaba parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento.

Un giorno due imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni.

I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto.

L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito.

Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché; attribuendo la non visione del tessuto a una sua indegnità che egli certo conosce, e come i suoi cortigiani prima di lui, anch’egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini i quali applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché nemmeno essi e sentendosi essi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità.

L’incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida con innocenza “Ma il re non ha niente addosso!” (o, secondo una variante, “Il re è nudo!”). Ciononostante, il sovrano continua imperterrito a sfilare come se nulla fosse successo.

* * *

“I vestiti nuovi dell’Imperatore” è la mia fiaba preferita, fin da quando ero bambino …

… insieme a “Pollicino”: la pazienza di inseguire le briciole per arrivare a una soluzione. Ma questa è già un’altra storia.

 

Gianfranco Domizi

 

 

N° 01 del 15 SET – “Dirigenti, elettori, militanti e varia umanità”

 

Nel linguaggio comune, “ideologia” e “ideologie” stanno per “insieme/i di idee”, o, più ambiziosamente, per “sistema/i di idee”. Non così per Marx, che vedeva nell’ “ideologia” una “falsa coscienza” derivante dall’ “essere sociale” delle persone. Insomma, borghesi e proletari, pur percependo gli stessi eventi e gli stessi fenomeni, ne vedono solamente la parte che il loro “essere sociale” consente di vedere

Così argomentavo nel Numero Zero, rimandando a questo numero per trarne alcune conseguenze nella dinamica sociale e nella comunicazione politica. A tal proposito, anticipavo la seguente matrice: a) dirigenti “scaltri” / elettori e militanti “scaltri”; b) dirigenti “scaltri” / elettori e militanti “ingenui”; c) dirigenti “ingenui” / elettori e militanti “scaltri”; d) da dirigenti “ingenui” / elettori e militanti “ingenui”.

Oggi ci dedichiamo ad a), ricordando preliminarmente che, mentre i dirigenti sono al 90% borghesi, o comunque privilegiati, fra gli elettori e i militanti dovrebbero trovarsi appartenenti a tutte le classi e a tutti i ceti sociali. Ciò sembrerebbe ovvio, ma come vedremo al termine dell’articolo, la realtà permette delle interessanti variazioni sul tema.

Dirigenti, elettori e militanti “scaltri” – li mettiamo tutti insieme, proprio perché stiamo parlando del caso a) – condividono un’idea: quella di far parte di una èlite, più o meno ristretta, di “vecchie volpi”, destinata a indottrinare il resto del mondo, ovvero i propri elettori e militanti ingenui (per serrare le fila), nonché elettori e militanti altrui (per accaparrarseli).

La “furbizia” consiste nel fatto che gli “scaltri” dovrebbero essere ben consapevoli di utilizzare solamente una parte della verità e della realtà nelle loro argomentazioni. Ma sono comunque disposti a farlo, pur di arrivare al risultato sperato.

Facciamo un esempio concreto: il fenomeno dei migranti aha un’evidente connotazione economica: si scappa dalla fame e dalla sete (che sono ovviamente condizioni economiche “stringenti”), dalla povertà (comunque “stringente” … ma la povertà c’è anche in Occidente, ed in Occidente molti la ritroveranno), o per cercare un’opportunità (condizione legittima, ma meno “stringente”).

Cosa si pensi dell’argomento non è importante, in questa sede.  Tuttavia, per essere chiari e niente affatto reticenti, mi dichiaro a favore di una vasta accoglienza e/o di un aiuto anche piuttosto dispendioso nei luoghi di origine, non solo per motivi umanitari, ma anche perché la povertà extra-europea è stata favorita dai comportamenti dei nostri governanti verso quei popoli.

Ma in questo articolo non si parla del come e perché “accogliere”, bensì di “ideologie” … ed in particolare del fatto che venga spesso occultata, o quasi, la radice del fenomeno (economica: la povertà), per evidenziare invece: 1) l’incontro, o, all’opposto, lo scontro fra civiltà; 2) la doverosità (“scappano dalla guerra”), o, all’opposto, la pericolosità dell’accoglienza (“sono delinquenti”, “sono al soldo dell’Isis”, “sono una polveriera che farà scoppiare le periferie italiane ed europee”). E invece sono principalmente POVERI. Punto. O, per meglio dire, punto e virgola, perché gli aspetti ulteriori esistono, ma, per l’appunto, vengono strumentalizzati ideologicamente, secondo l’opinione pubblica a cui ci si rivolge, al fine di “serrarla con sé”, o “conquistarla”.

L’ideologia “astuta” serve per rendere credibili messaggi fattualmente contraddittori: “Dobbiamo accogliere chi sta peggio di noi” (grandi vanterie sul tema, ed occhi rigorosamente chiusi su abusi ed irregolarità). E successivamente: “Gli sbarchi sono diminuiti dell’80%” (ma come?, non dovevamo accoglierli perché stanno peggio di noi?).

Ripeto, qui non si sta discutendo se accogliere, non accogliere, come accogliere, ma di “comunicazione politica”: vantarsi di accogliere, e poi vantarsi di accogliere molto molto meno, non è logicamente sostenibile, a meno di una raffinata (?) operazione retorica: vantarsi dell’accoglienza, e poi vantarsi NON della “minore accoglienza” (sarebbe impossibile, giacché c’è ben poco da vantarsi!), ma del “ripristino della legalità”. Insomma, si cambiare contenitore, con un gioco di prestigio, di cui, non a caso, è brillantissimo artefice Marco Minniti, uomo politico forgiatosi alla scuola del realismo e del cinismo dalemiano.

Il fatto è che esiste una posta più alta (non occorre poi essere così “scaltri” per capirlo), ovvero le prossime elezioni politiche, che tiene uniti dirigenti, elettori e militanti, grazie anche alla retorica, alla propaganda, all’ideologia. E a tal fine bisognerà mettere la sordina alle proprie individuali opinioni in materia (immigrazione sì, immigrazione no, immigrazione a condizione di …, immigrazione boh), per convergere sull’obiettivo principale: VINCERE

Dicevo sopra che i dirigenti politici sono al 90% borghesi, o comunque privilegiati, mentre fra gli elettori e i militanti dovrebbero ritrovarsi degli appartenenti a tutte le classi e a tutti i ceti sociali. La conseguenza logica dell’essere privilegiato è che la presenza di migranti POVERI (con tutto quello che può comportare) sia un non-problema, analogamente al non-problema costituito dagli italiani POVERI (con tutto quello che può comportare): essi stanno in periferie lontane (io, romano, e sicuramente non appartenente ad un èlite di privilegiati, non sono mai stato nel quartiere di Tor Bella Monaca -!-, pur conoscendo palmo a palmo le periferie di Roma Nord), o, ancor più lontano, prevalentemente in specifiche regioni del Sud Italia.

D’altra parte, per chi è invece un non-privilegiato, dovrebbe essere vitale che si dia una qualche soluzione al problema, e dovrebbe pertanto impegnarsi a richiedere a gran voce il passaggio dalla propaganda alle decisioni. Ed in una “democrazia vera”, potrebbe anche pretendere che siano ascoltate le sue opinioni sul “cosa” e sul “come”. Ma evidentemente non è così per gli elettori e per i militanti “scaltri”, che, finiscono per preferire la propaganda orchestrata dai loro dirigenti alla risoluzione dei problemi reali.

A questo punto i casi sono due: 1) la politica ha comunque aiutato questi “scaltri”, ma “non-privilegiati”, ad uscire dalle angustie proletarie e  sottoproletarie: quindi essi stessi sono diventati dei “quasi-privilegiati”, in quanto “vivono di politica”, e godono pertanto di parte dei vantaggi e del prestigio che la politica può dare (può bastare, ad esempio, essere Segretario di una Sezione, o Presidente di una Circoscrizione); 2) oppure sono diventati comunque così “scaltri”, da voler tenersi la situazione esistente, e l’ulteriore possibile degrado, pur di vincere una delle tante elezioni. Ed intanto si nutrono di “simboli”: bei discorsi, slogan, “ideologie”. (Ma se fosse così, sarebbero veramente così scaltri, come pensano di essere? .)

 

Gianfranco Domizi

 

 

Numero Zero del 01 SET – “Ideologie”

Con il Numero Zero de “Lintelligente”, inizia la rubrica “Polis”, specificamente dedicata al nesso fra “Politica” e “Idee”.

 Dobbiamo arrenderci al fatto che la Politica sia pure amministrazione economica, o addirittura comitato d’affari? Oppure esiste ancora una possibilità di governare mediante l’elaborazione, la comunicazione ed il conflitto fra idee reciprocamente differenti?

 Tenteremo, nei vari numeri, di articolare esempi e risposte per questa apparentemente semplice domanda.

 Nel linguaggio comune, “ideologia” e “ideologie” stanno per “insieme/i di idee”, o, più ambiziosamente, per “sistema/i di idee”.

Non così per Marx, che vedeva nell’ “ideologia” una “falsa coscienza” derivante dall’ “essere sociale” delle persone.

E’ un concetto meno difficile di quanto sembri.

Se sono un imprenditore, vedrò nell’organizzazione aziendale una serie di tentativi e progetti per arrivare ad una maggiore efficacia ed efficienza.

Se sono un operaio, vedrò invece tentativi e progetti per intensificare lo sfruttamento della manodopera, e rendere pertanto quest’ultima più remunerativa per l’investitore.

I due “esseri sociali”, insomma, vedono lo stesso fenomeno … ma ne vedono solamente una parte (“falsa coscienza”): quella che maggiormente li coinvolge esistenzialmente.

Da questa impostazione, deriva una conseguenza importantissima: le idee su cui tentiamo di confrontarci politicamente, per erigere una Società, sono costituzionalmente opinabili e insicure, giacché si basano su quella parte di realtà che ci è data di vedere.

Detto in altri termini: ognuno è in possesso di una fetta di realtà, MA NON DELLA VERITA’. E quella fetta di realtà va instancabilmente raccontata, affinché diventi maggioranza.

Da ciò derivano due conseguenze.

La prima è di ordine politico-sociale: un esponente politico dovrà far passare per verità una realtà “verosimile”, ma non dimostrata, né dimostrabile: la sua “arma”, pertanto non è la scienza (discorso logico), ma la persuasione (discorso retorico). E chi fa della retorica migliore, “vince”.

La seconda è di ordine individuale: l’esponente politico che partorisce una retorica “vincente”, e vince pertando spacciando una presunta verità, è consapevole di questa sua funzione, o crede veramente che ciò che dice rappresenti una verità assodata?

In un caso, avremmo a che fare con il politico “scaltro”, nell’altro con il politico “ingenuo” (ma “in buona fede”). A quale dei due conviene affidare il Governo delle nostre Società, consentendogli in tal modo di influire sulle nostre vite esistenziali, famigliari, professionali?

Ma siccome la distinzione fra “scaltri” ed “ingenui” taglia anche gli elettori e i militanti, si finisce per avere ben quattro forme di comunicazione politica:

a) da dirigenti “scaltri” ad elettori e militanti “scaltri”;

b) da dirigenti “scaltri” ad elettori e militanti “ingenui”;

c) da dirigenti “ingenui” ad elettori e militanti “scaltri”;

d) da dirigenti “ingenui” ad elettori e militanti “ingenui”.

Nelle prossime puntate, proporremo esempi di politica e di comunicazione che potranno essere decodificati mediante le distinzioni precedenti.

Arrivederci e rileggerci al primo numero de www.lintelligente.it

Gianfranco Domizi